Con una carriera intrapresa da giovanissima ed oltre un decennio di attività sulle spalle, dagli umbratili umori folk di “We Slept at Last” all’esplorazione in chiave pop della propria sessualità in “Any Human Friend”, Marika Hackman aveva già dato prova di versatilità e talento, ma con “Big Sigh” il livello si eleva ulteriormente.

Credit: Steve Gullick

Quel carrello della spesa in copertina, vuoto e abbandonato, potrebbe ben rappresentare i postumi di un’apocalisse interiore che poco ha lasciato oltre alla speranza di poter raggiungere presto le montagne che si intravedono in lontananza e tirare un sospiro di sollievo. Nello spazio intermedio che divide da quelle montagne si colloca tutto il resto: la memoria, la riflessione, il rimpianto, il desiderio.

Le parole sono inizialmente indistinguibili, un motivo malinconico di pianoforte cattura la scena, il suono dei violini evoca un delicato sogno diurno. “The Ground” è il seme da cui germoglia una storia in cui entriamo come ascoltatori in punta di piedi, partendo da un’immagine della luce dorata che illumina il terreno ed evoca un idilliaco ricordo d’infanzia, che si interrompe bruscamente. Tema centrale intorno a cui si sviluppa la narrazione é la riflessione sul passato da una prospettiva di distanza emotiva e temporale, che ha permesso a Marika di processare il proprio vissuto e tradurlo in un album dal suono ricco di contrasti ben calibrati, in cui le chitarre che ammiccano agli anni novanta si fondono con rumori industriali e il delicato inserimento degli archi dona agli arrangiamenti uno spessore dinamico ed espansivo, disegnando per ogni brano uno specifico paesaggio sonoro.

L’album ha visto la luce dopo un lungo hiatus dovuto ad un blocco creativo durato quasi quattro anni, per portarlo a compimento si è avvalsa della collaborazione di Charlie Andrew, producer anche degli alt-J, con cui aveva già registrato i primi lavori e di Sam Petts-Davis, artefice di album dei The Smile, Radiohead e Warpaint. La Hackman ha suonato quasi ogni strumento presente sul disco e tra essi figura anche il sarangi, uno strumento a corde tradizionalmente utilizzato nella musica indiana il cui nome evoca centinaia di sfumature di colore per la varietà di suoni che produce. La consapevolezza maturata negli anni l’ha portata ad una scrittura più pacata ma pur sempre avvolta in un vivido immaginario in cui è presenza costante il lessico relativo a parti del corpo, a tratti romantico e bucolico, a tratti graficamente macabro. “We’re rotten fruit, we’re damaged goods”, prendendo in prestito metafore dai Radiohead, disillusi e destinati a risalire a ritroso la corrente per ricercare memoria dei momenti felici. Ed é forse il percorso che ha portato Marika a scavare fino alle origini per ritrovare l’oro della creatività che ad un certo punto considerava perduta. Intrappolata dall’ansia, il mondo circostante collassato in una spirale discendente, ha rivolto lo sguardo al passato.

La prima traccia scritta per questo disco è stata “Hanging” la cui melodia intonata al pianoforte esprime uno struggente sentimento di sospensione, mentre frasi come “I wouldn’t like to hold my breath / to be pushed underwater when I’m coming up for air”, “And my heart won’t grow / with your fingers down my throat” rendono alla perfezione il senso di soffocamento e l’impossibilità di evolversi in una relazione agonizzante, fino al liberatorio coro finale “Yeah you were a part of me, I’m so relieved it hurts”. “No Caffeine” eccentrica quanto efficace to-do list scandita a suon di riffs vorticosi per contrastare lo struggimento dell’ansia, dove troviamo un basso dal groove incalzante e ancora i violini a creare suspence e spessore, é uno dei pezzi di punta insieme alla sensuale “Slime” che inneggia ad una ritrovata pulsione amorosa, in bilico tra il volere e il non volere cedere al proprio desiderio. La dolente inversione di realtà di “Blood” si apre con la chitarra acustica su cui si costruisce la tensione della canzone, ma le armonie leggere delle note di pianoforte ne stemperano il contenuto. “The Lonely House”, scarno interludio strumentale al pianoforte, ha il potere espressivo di dire senza utilizzare parole molto più di ciò che le parole stesse non arriverebbero ad esprimere, ricordando per efficacia evocativa la versione strumentale di “(You Made It Feel Like) Home” che Trent Reznor e Atticus Ross hanno composto per la colonna sonora di “Bones and All”.

Il brano che probabilmente più sorprende è “Vitamins”, con la voce robotica filtrata attraverso il vocoder “‘Cause I’m not special and you’re all insane / we’re not special and we’re all the same” e i disturbanti suoni metallici a scandire il lento scorrere del tempo verso un futuro oscuro, che soprattutto nel climax di synth finale funzionerebbe alla perfezione in una sequenza di fantascienza ispirata alle gesta di qualche androide di un racconto di Philip K.Dick. Sangue ed ossa sono elementi ricorrenti nei testi, il sangue si confonde col vino e sfuma nel ricordo dell’ebbrezza di un amore perduto, mentre le ossa vengono sepolte all’esterno quasi a rappresentare qualcosa da cui distaccarsi per trovare la pace. Ritorna la chitarra acustica per chiudere il cerchio con le sfumature folk di “The Yellow Mile”, una delle tracce più belle e significative dell’album, in cui si fondono tutti gli elementi incontrati nei brani precedenti e riaffiora nella memoria quella luce dorata riflessa sul suolo da cui tutto ebbe inizio. Una donna si trova a fissare il soffitto come un insetto capovolto in un passaggio kafkiano e confida che, malgrado ciò che ha vissuto, non cambierebbe il passato ricordando di essere stata felice, mentre la sua voce che si moltiplica amplifica l’eco della nostalgia.

“Big Sigh” è un album permeato da una sorta di lucentezza meravigliosamente triste, resa sia dagli arrangiamenti sia dalla voce, che con la sua vulnerabilità ammorbidisce la schiettezza dei testi. Il sospiro appena percettibile all’inizio di “The Lonely House”, così come la scelta di mantenere qualche dettaglio grezzo nella registrazione, conferisce un tocco più intimo che lo rende autentico e non eccessivamente rifinito da una produzione patinata. Sullo sfondo il costante contrasto tra il set bucolico dei ricordi d’infanzia e la stridente realtà della vita adulta in una grande città. Marika Hackman ha senza dubbio dimostrato che quello da lei definito come il suo lavoro più difficile brilla per organicità poetica e dinamicità sonora ed è forse quanto di meglio abbia saputo creare fino ad ora.