Non ci strappiamo i capelli per questo atteso esordio dei NewDad, formazione irlandese guidata dalla voce di Julie Dawson, che ci mette anima e cuore in quello che canta, aprendosi a confessioni personali e taglienti. Bastasse la sincerità e la fragilità della fanciulla ad alzare il voto, beh, staremmo sicuramente parlando di un gran bel disco, ma in realtà gli altri fattori musicali concorrono a farci propendere per giudicare la proposta in modo piuttosto mediocre.
La band fatica ad osare e la produzione stessa è indecisa sulla direzione da prendere. “MANTRA” così, alla fine, sembra esplorare in modo superficiale un po’ di territori, senza però concentrarsi in modo adeguato e fruttuoso su nulla. Un tocco di dream-pop, qualche chitarra che più che a Kevin Shields riporta a Kim Deal (nel disco di shoegaze, checchè ne dica la stampa inglese non c’è traccia, dai), un alt-rock (indie-pop?) dagli spigoli che vorrebbero essere acuti ma sono piuttosto plastificati e fanno fatica a solleticarci, sopratutto se il songwriting si dimostra ripetitivo e non particolarmente brillante. Purtroppo latitano anche i ritornelli veramente incisivi, capaci di restare in mente (fa eccezione “In My Head” che è veramente una bomba) e la cosa ci dispiace assai, perché le aspettative sui ragazzi irlandesi c’erano e non erano poche.
Diciamocelo tranquillamente che siamo lontani anni luce dall’intesità dei Wolf Alice, tanto per fare un paragone, ma anche dalla presa di posizione più netta delle Softcult. La malinconia, lo smarrimento, alcuni momenti avvolgenti che poi si fanno più rumorosi, c’è tutto per provare a fare il colpo sopratutto su un target più giovane, ma in realtà è come se la produzione, alla fine, cercasse di non amplificare i momenti più carichi piuttosto che accentuarli, rendendo fin troppo uniforme e banale il tutto. Va da sè che così, ad emergere, è inevitabilmente una ballata toccante e ricca di sensibilità come “White Ribbons”, sussurrata e da pelle d’oca.
Una prima prova che arriva a un 6 di stima. Nulla di più.