“Basilisk” è il nuovo album di J. Robbins, musicista statunitense noto per aver guidato i Jawbox, una delle band più influenti del post-hardcore anni ’90. Dopo aver esplorato vari progetti musicali, tra cui i Burning Airlines e i Channels, Robbins torna a firmare un disco a suo nome, a distanza di quasi cinque anni dal precedente “Un-Becoming”.
Il titolo dell’album, che richiama il mitico serpente che uccide con lo sguardo, è emblematico della potenza e della tensione che caratterizzano le undici tracce che lo compongono. Robbins dimostra di non aver perso il suo talento compositivo, anzi, di averlo affinato e aggiornato, proponendo una versione moderna e ammorbidita del classico post-hardcore, con una fortissima componente melodica e qualche originale elemento elettronico (sparso ma molto incisivo).
L’album si apre con “Automaticity”, un brano che sintetizza bene lo stile del nuovo Robbins: chitarre taglienti, ritmica serrata, basso roccioso, voce graffiante ma capace di intonare ritornelli orecchiabili. I synth sono sempre sullo sfondo ma, in più di qualche occasione, svaniscono per lasciare spazio a deflagrazioni sonore di grande impatto.
Tra le influenze più evidenti di Robbins, oltre ai suoi Jawbox, ci sono sicuramente i Quicksand di Walter Schreifels,i Failure di Ken Andrews e gli Sugar di Bob Mould, due band che hanno lasciato un segno profondo nell’alternative rock dal sapore grunge degli anni ’90. Gli influssi si avvertono soprattutto in brani come “Gasoline Rainbows”, “Old Soul”, “A Ray Of Sunlight” e nell’eccellente “Exquisite Corpse”. In generale una fortissima impronta “mouldiana” contraddistingue l’album nella sua interezza.
J. Robbins, che a tratti sembra quasi volersi nascondere dietro l’ombra dell’ex cantante/chitarrista degli Hüsker Dü, riesce a fugare qualsiasi dubbio sulla sua personalità mettendo costantemente in bella mostra il suo invidiabile talento di autore di canzoni emozionanti e coinvolgenti, elargendo con generosità riff memorabili e melodie accattivanti.
L’album però non è privo di difetti, e si perde un po’ nella parte finale, con alcune tracce che non riescono a mantenersi su alti livelli qualitativi. “Sonder” e “Dead Eyed God” sono due esempi di come l’uso dell’elettronica possa risultare controproducente, se non ben dosato e integrato. Le due canzoni hanno un tono post-punk che non si sposa bene con lo stile diretto di Robbins, e risultano fiacche e noiose, senza particolari spunti di interesse.
In conclusione, “Basilisk” è un buon album che conferma per l’ennesima volta le qualità di J. Robbins, un musicista che ha saputo lasciare il segno nella storia del post-hardcore, e che continua a produrre lavori validi e freschi, con il giusto mix tra ispirazione ed energia. Tanti i brani degni di lode in scaletta ma, purtroppo, non mancano alcune cadute di tono, che ne pregiudicano la coerenza e la compattezza.