Certe volte, quando pensiamo ad un pianoforte, la nostra mente ci riporta riferimenti antiquati e non corrispondenti alla realtà. Suonare e vivere il pianoforte nel nuovo millennio è un atto di ribellione agli standard a cui ci siamo abituati fino ad adesso. Suonare e vivere il pianoforte nel nuovo millennio è l’atto di ribellione e di cambiamento che ha intrapreso il pianista Thomas Umbaca. Abbiamo fatto una chiacchierata con lui per parlare del suo primo album, “UMBAKA” (Ponderosa Music Records), del suo primo tour e di cosa significa suonare ancora questo strumento nel 2024.
Ciao Thomas, grazie per questa intervista. Partiamo subito a cannone con la prima domanda, un mare magnum che però non posso non chiederti. “UMBAKA” è il tuo primo album, un album d’esordio originale e diverso dai classici che possiamo ascoltare in questo momento. Qual è stato il tuo processo creativo nell’ideazione di questo progetto?
Mi sento “fortunato” perché ho avuto modo di costruire questa musica con tempo e calma. Quando si è trattato di registrare dei provini avevo già pronte un po’ di cose, e fino al momento delle registrazioni definitive ho avuto modo di sperimentare le composizioni davanti al pubblico, aggiustando e rimodificando fino a quando non ho sentito che entravano il più possibile in consonanza con il mio sentire e con quello degli altri.
Direi che per questo motivo sono pezzi che si sono riempiti di anima, nati con la “collaborazione” di stimoli esterni. Cerco sempre di infilare qualche nuovo pezzo in un concerto proprio per testarlo, e per rubare e catturare un po’ di energia degli altri! Insomma per cui avendo avuto modo di dedicare quel tempo e cura a ogni pezzo poi l’album è stato il risultato abbastanza naturale del loro graduale accostarsi. In qualche modo ho avvertito che avevo raccolto abbastanza brani e che erano tutti accomunati dalla stessa voglia di essere liberati. Penso sempre che oltre a essere pezzi di musica sono pezzi di esperienza, di vita…
Suonare il pianoforte, nel 2024, viene spesso additato purtroppo a qualcosa di classico e non moderno. O, ancora peggio, a qualcosa di molto vecchio. Tu invece hai saputo svecchiare questo strumento, dandogli nuova vita e nuova direzione. Hai trovato difficoltà nell’imbarcarti in questo viaggio un po’ “controcorrente”?
Quello che cerco di fare è non farmi rapire dal pianoforte e dalle convenzioni che si porta dietro, mi piace dialogarci alla pari senza subirlo, per cui se possibile provo a evitare formule già troppo connesse all’immaginario comune di questo strumento, che alla fine diventa una specie di pregiudizio. Cerco di non mediare troppo i miei impulsi… e così provo a far rivivere il piano, insomma, di lasciare che viva nel contemporaneo, perché non si rifà a formule precise del passato. Già altri pianisti hanno definito dei modi di suonare, io cerco di riempire altri spazi, di seguire strade meno battute.
Per risponderti, no sicuramente non è la strada più facile. Ma io credo nelle persone, in generale, e credo nel potere comunicativo della musica, e allora mi faccio trascinare anch’io in questo flusso. Finora mi porta a condividere momenti che rimangono impressi in me e in chi partecipa ascoltando. Per cui mi viene da pensare che è una buona direzione. Alla fine è un po’ una missione, penso che abbiamo tutti bisogno di questi momenti, forse più di quanto si pensi. Ed è soprattutto una questione di proposta. La musica oggi spesso va in una direzione di “appiattimento” di genere, perché in molti casi le persone ascoltano cose, “mood” un po’ impacchettati in cui spesso sanno già cosa trovare. Io vorrei far scoprire mondi nuovi, ma di cui comunque ci si sente già parte. Alla fine si parla di emozioni, e quelle le conosciamo tutti.
Hai origini anglo-calabresi; hai studiato al conservatorio, specializzandoti nel filone jazz. Quanto è importante per te questo genere e come pensi sia messo il jazz (nazionale ed internazionale) ora come ora?
Per me il jazz è importante perché può parlare ancora di umanità, e per me è stata e continua ad essere un’enorme fonte da cui prendere ispirazione. Provando un po’ a risponderti, c’è purtroppo il rischio che dove questa musica storicamente è meno radicata e “sentita” a livello culturale, spesso si riduca a un mero linguaggio, a note giuste ma un po’ vuote, come se fossero sconnesse dalla persona. C’è come un po’ di paura ad ascoltarsi e a mostrarsi per come si è, magari anche fragili, o sensibili (c’è anche un certo machismo nel jazz ma non apriamo questa parentesi haha) . insomma se non ci si butta senza paura nella musica, dove? Per dire che dal mio punto di vista questo mondo non è riducibile a uno “stile”.
Il Jazz è molto di più, è qualcosa che incontri o meno e che è più grande di te, a volte è un punto di arrivo, qualcosa a cui aspirare. Personalmente sento di averlo intercettato a volte, di aver compreso il significato di questa musica, ma da europeo (o mezzo, sic) faccio fatica a definirmi “jazzista”, mi suona un po’ forzato. Di linguaggio jazz, in senso più tradizionale, nella mia musica c’è molto poco, ma penso che ci sia molto di quello spirito. Sicuramente è una musica che resta e resterà sempre in dialogo con quel mondo.
Se dovessi pensare al tuo bagaglio artistico che ti porti sulle spalle, cosa pensi ti abbia veramente formato?
Per la maggior parte cose slegate dallo studio più accademico: le esperienze vissute a contatto con amici e persone vicine, ma anche “sconosciuti”, che poi non esistono. le chiacchiere, i silenzi. Posti frequentati a cui sono affezionato. Concerti visti o fatti che mi hanno regalato molto. Poi cose che ho studiato, certi libri e certi dischi. Faccio fatica a vedere a un percorso per tappe precise, per cui ti direi che metto dentro tutto. Anche alcuni momenti di noia, che mi hanno spinto a cercare oltre.
Ci sono artisti/band in generale con cui vorresti tanto collaborare nel futuro?
Ho qualche idea in mente ma per scaramanzia meglio non dire! comunque sono sempre un po’ alla ricerca di voci autentiche con cui sento un’ affinità. Sicuramente penso che mi piacerebbe fare cose trasversali, aggiungere una caratteristica che non ho io e ampliare il suono. Un feat con qualche producer elettronico per esempio mi gaserebbe! ma anche con chi usa le parole, e vedere cosa esce fuori da stimoli e visioni diverse.
Cosa fai ogni volta che devi salire su un palco? Hai un rito scaramantico?
Sto in silenzio, per raccogliere energie, e per creare contrasto con quello che poi faccio sul palco. Quando fai le cose a partire dal silenzio tutto assume più importanza. Solitamente sto in camerino con il mio foglietto su cui è scritta una bozza di struttura del concerto – che poi tengo nel pianoforte da sbirciare all’occorrenza – ci passo un po’ di tempo insieme per cercare di orientarmi nella struttura – un po’ come si guarderebbe una mappa di una città prima di girarla. 4 saltelli per sciogliere le tensioni e via. niente pasta al tonno e niente torta al cioccolato… haha (cit per pochi).
Ultima domanda: stai per andare in tour, cosa non deve mancare secondo te? Cosa ti porterai dietro?
Ti direi niente, è tutto nel corpo e nella mente, non sento bisogno di nient’altro in particolare, se non delle persone che vengono ad ascoltare, di loro sì.. Di non materiale porto tanta curiosità di vedere e conoscere i posti e, sempre, voglia di suonare!
Thomas Umbaca sarà in tour nei prossimi mesi. Il consiglio è di non perdere questa occasione per riscoprire cosa vuol dire suonare il pianoforte nel nuovo millennio. Info QUI.
24 Febbraio 2024 – Arci Bellezza (Milano)
02 Marzo 2024 – Casa del Jazz (Roma)
14 Marzo 2024 – Teatro Garybaldi (Settimo Torinese – TO)
17 Luglio 2024 – Naturalmente Pianoforte (Camaldoli – AR)