Mi capita raramente ma per fortuna non è un fatto precluso quello di emozionarsi all’uscita di un disco, e ancora sorprende di più che nella fattispecie si tratti di un ensemble nuovo di zecca. Sto parlando dei Tapir!, sei musicisti di indubbio talento che per la prima volta cinque anni fa gettarono le basi per avviare un progetto che potesse fondere musica, arte e narrazione, assecondando una fertile vena creativa.
Il luogo del cuore divenne il Tavern, locale adatto a far fiorire realtà del genere, là dove Ike Gray (voce, chitarra e mente brillante del collettivo), Tom Rogers-Coltman (sax, chitarra), Emily Hubbard (synth, cornetta, voce), Will McCrossan (tastiere, drum machine, colui che con Gray ha avvallato il tutto), Ronnie Longfellow (basso) e Wilf Cartwright (batteria, violoncello) cominciarono a mettersi alla prova, seppur con l’incubo materializzatosi presto della pandemia, che li costrinse a lavorare a distanza.
Poco male, Gray e compagni hanno avuto modo così di procedere con calma nella realizzazione di una piccola opera, una storia che fosse scandagliata attraverso le varie tracce da legare poi assieme.
Da qui l’evocativo titolo: “The Pilgrim, Their God and The King of My Decrepit Mountain”, a mettere in luce chi sarà il protagonista da seguire in questo affascinante viaggio, strutturato in tre tappe (o atti, come vengono citati nella scaletta).
Atti che avevano visto la luce sotto forma di Ep ma finalmente completati e racchiusi in questo esordio, che mi è giunto come una navicella aliena ad allietarmi le orecchie ma anche il cuore.
Sì, perché al di là di un fraintendibile intento intellettuale, fuor di teoria, a colpire in primis è la tanta sostanza musicale che sgorga florida da questo album.
Il prog rimane valido come genere-faro, fungendo da punto di riferimento per determinati contenuti ma in realtà la tavolozza è alquanto varia e, se vogliamo, più fruibile, non disdegnando nemmeno a priori la sfera pop, o alt-pop, per essere più realistici.
Ci si ritrova immersi in un ascolto attento e ondulatorio, tra echi folk, atmosfere rarefatte fatte di inserti elettronici e solennità pianistiche, e con rimandi che vanno dai Radiohead appena sperimentali e i Sigur Ros, per arrivare ai Fleet Foxes (forse il nome che maggiormente viene evocato) e ai Belle and Sebastian.
Immagino quindi che leggendo questi nomi sia facile farsi un’idea precisa di cosa si andrà ad ascoltare, eppure l’abilità dei Tapir! sta proprio nel saper fondere tante suggestioni artistiche ed esperienze felici per creare un linguaggio proprio, che suoni assolutamente naturale e nuovo.
Cosicché, partendo da quel primo atto introdotto dalla voce narrante dell’ospite Little Wings (il musicista americano Kyle Field), possiamo immaginarci questo moderno “pellegrino” alle prese con un viaggio che, dopo averlo visto sprofondare richiamato dall’Oltretomba, saprà vedere infine la luce, trovando nuove mete e un proprio Dio.
Il disco vive di dettagli, gli stessi che fanno la differenza laddove a una prima sensazione parrebbe forse vigere una certa omologazione: lo sono quelli speziati di pregevoli fiati in “On A Grassy Knoll (We’ll Bow Together)”, lo è la raffinata cornetta, inattesa come uno squarcio di luce, che fa capolino in “Swallow”, o la dolcezza malinconica di cui è intrisa “Untitled”.
E che dire degli spunti jazz di “Gymnopédie”, dell’eterea bellezza di “Broken Ark”, della placida vena intimista di “My God” (piccola gemma chamber-pop) o di una “Eidolon” carica di intensa mestizia? Insomma, al termine di questo articolato viaggio che culmina nella multiforme “Mountain Song”, si ha la consapevolezza di trovarsi davanti a un lavoro di grande qualità.
I Tapir! al loro debutto discografico hanno saputo miscelare le rispettive competenze artistiche, incanalando una grande ricchezza di idee, e nel farlo hanno mostrato oltretutto una maturità sorprendente.
Con tutti questi ingredienti, “The Pilgrim, Their God and The King of My Decrepit Mountain” si candida di diritto sin da ora tra i dischi più interessanti del 2024.