Uno degli album più attesi del 2024 quello di Liam Gallagher e John Squire, due autentici portabandiera del rock from Manchester nel mondo, in quanto – per i profani, ma davvero profani del settore – rispettivamente storica voce degli Oasis e storica chitarra dei The Stone Roses.
Due signori che hanno segnato la storia della musica più o meno rock sventolante la Union Jack, ma che in proprio hanno fatto poco per entrare nella memorabilia: prima i Beady Eye e poi l’avventura solista per Liam, lungi da qualsiasi picco artistico; Squire di par suo può annoverare un album (discreto) con i The Seahorses (che sono durati quanto un gatto sull’Aurelia) e un paio di dischi dimenticabili in proprio, per poi mettere a referto un silenzio quasi ventennale – musicalmente parlando – fatta salva l’operazione nostalgia con gli stessi Stone Roses che ha pienato stadi e cuori per le isole britanniche e la miseria di due singoli mediocri che (fortunatamente?) non sono sfociati in altro materiale.
E questo nuovo album? Parafrasando quello che ha scritto un lettore sulle nostre pagine, le premesse sono quelle di un “film che vai a vedere non per la trama, ma per gli attori“. L’ho trovata calzante, in via del tutto aprioristica e carica di quella sana punta di pregiudizio. Poi però un album va anche ascoltato, e allora avanti.
“Mars to Liverpool”, già diffusa come singolo, ha un buon groove ed è solare e stuzzicante; l’altro singolo già diffuso, “Just Another Rainbow”, è invece destinato a finire debitamente nel dimenticatoio, nonostante l’assolo acido, lungo quanto forzato, di Squire: una b-side di “Second Coming”, a volergli bene (e Liam che elenca i colori dell’arcobaleno è sinceramente qualcosa di cui avremmo tutti fatto volentieri a meno); “I Am a Wheel”, di converso, si regge su un andazzo blues polveroso e non è affatto male, per quanto lontana dall’essere un pezzo di punta. Le melodie, per loro canto e per quanto spesso trite e banali (i richiami a Beatles, Kinks e Who si sprecano), sono comunque orecchiabili (“Make it Up As You Go Along”; “Mother Nature’s Song”). Canzonette, molte canzonette, scrittura asfittica e nessun picco particolare, Squire si prende i propri spazi per arabeschi ora più psichedelici e brucianti, ora più blueseggianti e sporchi con la propria chitarra: fa piacere, lo ammetto, sapere e sentire che la sei corde non sia appesa al chiodo, a prescindere da tutto; Liam, invece, fa il Liam: piena le parti vocali con il suo stile che non si allontana dai
crismi a cui ci ha ormai abituato.
Torniamo dove finiamo spesso quando si parla, soprattutto, di Liam Gallagher: un album che i fan indomiti e indomabili diranno di aver gradito dal primo all’ultimo minuto, pronti a riempire i palazzetti per le immancabili date live, mentre i detrattori – forse senza nemmeno ascoltarlo – si sono già muniti di fruste, tizzoni ardenti, scudisci e pietre da lanciare.
Alla fine, devo essere sincero, mi aspettavo questo livello quali-quantitativo, ma forse avrei immaginato qualcosa di addirittura più prevedibile e pacchiano: per quanto il de-ja sentì sia dietro l’angolo e non si porti a casa nessun episodio degno di particolare futura memoria, il lavoro scorre comunque orizzontale seguendo un proprio stile (e senza far sanguinare le orecchie), frutto anche di un lavoro nella stanza dei suoni e dei bottoni comunque apprezzabile.
Voglio essere magnanimo e chioserò così: un disco che probabilmente passerà alla cassa, ma che di certo non passerà alla storia.
Così facendo, forse, saranno evitate sia le dite puntate dei mad fer it più ortodossi che le torture degli odiatori più accaniti. Forse, dico forse.