Se un tempo esistevano le scene locali, dove i gruppi si conoscevano personalmente, suonavano insieme e si scambiavano influenze (qualcosina è sopravvissuto a fatica ancora oggi, ad esempio con la scena di Windmill), la geografia musicale odierna è assolutamente centrifuga e atomizzata: singoli individui si chiudono nella propria stanza, compongono, suonano, producono, cantano e sommergono i canali YouTube et similia. All’interno di questa tendenza autarchica, favorita da computer e AI sempre più affinate, scopro così, con consueto ritardo, che esiste un fiorente network di artisti “fluidi” (specie da Marte direzione Venere) nonché dotati di una cultura onnivora che metabolizza le più disparate tendenze e subculture della rete: dai più affermati (Arca, SOPHIE – pace all’anima sua – e Vektroid, nume tutelare della vaporwave) a quelli in rampa di lancio (underscores, Jane Remover) a quelli che giocano sull’androginia più equivoca (Yves Tumor, yeule), ogni tanto qualcuno scavalca la ringhiera che separa pubblico e musicisti mettendosi in proprio (trovo tutto ciò la cosa più vicina al punk emersa negli ultimi anni). Uno di questi, un utente di AOTY il cui nickname è samlrc, ha da poco pubblicato un lavoro che sta mietendo sentiti plausi fra le comunità interessate: “A Lonely Sinner”. Per curiosità, me lo sono ascoltato.
Calderone di stili alternativi degli ultimi vent’anni (i riferimenti ricorrenti sono il folk psichedelico e trascendente dei Natural Snow Buildings per le parti bucoliche, l’epica polverosa e straziante dei primi Have a Nice Life per quelle sinfoniche), “A Lonely Sinner” si propone ambiziosamente di raccontare “la storia di una pecora che scopre l’amore a modo suo” (come precisato dall’autore, una trans diciannovenne brasiliana che si fa chiamare Samantha Rodrigues da Cruz). Colmo di citazioni e samples (dal videogioco “Silent Hill” alla celeberrima “Principessa Mononoke” di Miyazaki, solo per rimanere nell’ambito delle colonne sonore) e ispirato al crudo mediometraggio animato giapponese “Chirin no Suzu” del 1978, la parabola di un agnello che vuole diventare un lupo, o quantomeno abbastanza ardimentoso da non temere i lupi e diventarne a sua volta carnefice, samlrc rappresenta il suo personale romanzo di formazione alla ricerca della pace interiore (“insegnami ad essere un lupo, non voglio essere ucciso, voglio essere forte” grida Sam/Chirin in “Storge”).
“Lamb Theme” è il breve drone pastorale che introduce “Philautia”, forse il brano più complesso, una suite di dodici minuti inaugurata da un mantra folk, colmo di scampanellii ed archi ad imitare il volo degli uccelli, qualche (onnipresente) belato di pecora ed un’anemica ninna-nanna straziata da glitch riverberati. Poi il brano si eleva celestiale come una preghiera di Phil Elverum, fino ad un gargantuesco crescendo alla Swans, degno della miglior tradizione post-rock, uno dei climax emotivi dell’album. La successiva “Sinner” ne ricalca la struttura: prima un bisbiglio trasognato in compagnia dei soliti amici ovini, accompagnato da arpeggi in backwards, poi una nuova deflagrazione e una chiusa serafica che sconfina nella musica ambientale.
All’opposto, “Flowerfields” è una sonata pianistica, ma soprattutto un piccolo esperimento sui timbri (con il basso di “Lullaby” dei Low in sottofondo) dove colano lacrimucce come pioggia, sottili perline che si dilatano e infine si deformano in uno specchio d’acqua, confluendo al termine nell’algida coda elettronica. In mezz’ora scarsa si è passati senza soluzione di continuità dal folk al rock alla microhouse, il tutto con un abbozzo di (incertissimo) cantautorato. Senza dubbio le idee non mancano, e pure la resa non suona affatto amatoriale.
L’altro brano-fiume è “Storge” (altri 12 minuti), un incubo di dimensioni ciclopiche. Già l’intro non promette niente di buono, con strepiti isterici che si rincorrono mentre un avviso acustico martella imperterrito come un segnale di allarme. Un aggraziato arpeggio incorporeo trascina l’ascoltatore in una dimensione onirica, mentre sullo sfondo si ode un ennesimo campionamento (sempre i Natural Snow Buildings), poi un sinistro grugnito da maiale annuncia un’atmosfera da fine del mondo, ultra-percussiva e abrasa da schitarrate malefiche. Un intermezzo etnico su cui si librano sofferti gorgheggi femminili concede una breve pausa prima che divampi un’apoteosi nera che arriva a lambire il black-metal. Sembra di ascoltare la colonna sonora di un film bellico, ma il criptico dialogo che ammanta il finale indulge nei meandri del thriller psicanalitico (e allora si capisce che la guerra c’è davvero, e la si ha in testa).
Sono canzoni che al loro interno hanno altre canzoni composte e assemblate con moncherini di altre canzoni, ma il risultato è straordinariamente omogeneo e non c’è quasi mai rigetto delle parti trapiantate. “Sheep Theme” è l’unica (breve) canzone regolare, un lo-fi indie anni ’90 che vanta sia un ritornello (deo gratias!) che un omaggio agli Interpol di “PDA“. Brillante è infine l’ariosa fanfara di “For M.”, che giustappone un clone di “Sleep” dei Godspeed You! Black Emperor alla versione per archi della “Hyperballad” di Björk (opera del Vitamin String Quartet), rintuzzata come fosse un’allegra quadriglia di banjo e fiati. Nonostante si sfiorino i 50 minuti di durata, le ripetizioni sono ridotte all’osso ed ogni sezione suona diversa dalla precedente, limitandosi ai rimandi circolari e ricorsivi che un concept richiede – oltre i belati e le campanelle, s’intende.
Chiude la solare “The Beauty of the Present Moment” e questa risalita al paradiso credo stia a significare che la nostra pecorella smarrita si è ravveduta, è cresciuta, ecc. ecc. Il punto debole dell’opera è in effetti il canto, stonato e approssimativo, ma fortunatamente le parti vocali sono limitate e l’album può essere considerato un unico, lungo brano strumentale in più atti, con i pezzi collegati tra loro alla bell’e meglio, come usava all’epoca del prog.
C’è da chiedersi se veramente questa sia l’opera di un teen-ager che ha registrato tutto nella propria cameretta, come millantato dall’autore. L’anonimato di internet si presta a prese in giro galattiche. Non si capisce neppure quali siano le parti originali e quelle prese a prestito, tanti sono i riferimenti e i “furti” artistici. Resta il fatto che la produzione è eccellente, la vastità di stili e umori amplissima, e la coesione compositiva miracolosa, da scafato scultore del suono. Nel gran marasma della musica fai-da-te che ha inondato la rete negli ultimi lustri, “A Lonely Sinner” sembra davvero uno dei più credibili e sinceri gridi d’aiuto di una generazione di adolescenti senza più fondamenta né coordinate affettive, e possiamo concludere che le attenzioni ricevute sono senz’altro meritate.