Cerchiamo subito di sgomberare il campo da banali (ed errate) conclusioni. Il mio giudizio negativo o parzialmente tale non è dovuto al fatto che “I Ride non fanno più shoegaze“. Che la band di Oxford abbia fatto scuola nel genere è innegabile, così come è lampante che dopo i primi due album abbiano sempre più deciso di guardare altrove, fin da “Carnival Of Light” del 1994. Nella loro seconda vita artistica poi, quella iniziata con “Weather Diaries”, accostare la parola shoegaze alla band fa ridere, visto che praticamente i rimandi musicali ai loro primi anni ’90 sono pochissimi. Da questo punto di vista la parola “immobilismo” non potrà mai essere accostata al quartetto, poco ma sicuro.
Questa varietà è un male? No. È una scelta di campo chiara che la band di Mark e Andy ha intrapreso, un po’ sulla falsariga del percoso che altri mostri sacri dello shoegaze come gli Slowdive stanno facendo: i “boss” degli anni ’90 hanno abbandonato la barca e fanno altro. Prendiamone atto.
Se non mi vedete fare salti di gioia per questo album, quindi, è semplicemente perché il disco è lo specchio di una certa confusione e banalità, spesso sconcertante, nelle scelte in fase di arrangiamento della band e, sopratutto, è troppo caratterizzato da un drammatico saliscendi qualitativo dei brani che inficia ogni tentativo di essere bendisposti.
Che i Ride provino a scopiazzare i New Order in “Last Frontier” non mi disturba affatto, sopratutto perché il pezzo è valido, anche se sentire Steve Queralt che fa il clone di Peter Hook ci fa comunque sorridere un po’ amaramente. Che provino pure a tracciare una linea sul solco synthpop, addirittura, dei Depeche Mode può lasciare interdetti (Andy comunque con l’elettronica nei suoi GLOK ci da dentro sempre con gusto) ma se fatto con discreto piglio, seppur tutto in modo molto scolastico, come in “Came To See The Wreck”, merita comunque una nota di merito, se non altro per l’impennata sonica che caratterizza il brano. Poi ecco che, invece, nel gioco del guardarsi intorno e raccattare spunti variegati c’è qualcosa che non funziona più. “Peace Sign” è ammantata di una radiofonia fastidiosa e banalotta, con una profusione di synth e chitarre (debolissime) in odor di Coldplay, per non parlare di “Monaco” che ha la forma di una collaborazione tra Editors e OMD, ma solo la forma, perché la sostanza ci porta in debito giusto un ritornello poverello. Vorremmo essere negli anni ’80 sembrano dirci i Ride. Eh, rispondiamo noi, da artisti come voi ci saremmo aspettati qualcosa di ben più profondo, più vivo, incisivo, pulsante, cattivo se mi passate il termine, ma purtroppo no, qui la superficialità regna sovrana: ancora chitarre e Loz sacrificati entrambi all’altare del “in radio pare funzionare meglio così”. A questo punto datemi i White Lies tutta la vita che ci paiono più sul pezzo, se tanto mi dà tanto. Giusto per restare sul radiofonico andante e gli anni ’80 ecco “Sunrise Chaser”, con queste tastierine degne di Sandy Marton che prova a farsi un viaggio nella psichedelia. Terribile.
Intendiamoci, un brano come “Monaco” va anche bene se stai facendo la spesa all’Esselunga, te lo dimentichi presto e, almeno, non ti disturba se sei un ascoltatore non particolarmente attento, ma i Ride attuali sanno invece colpire duro e fare male, in senso negativo, toccando le corde della noia più acute.
“Stay Free” potrebbe tranquillamente essere il punto basso di una carriera: una roba funerea nata forse dopo una serata passata ad evocare il fantasma di Mark Lanegan, e la successiva “Last Night I Went Somewhere To Dream” si trascina stancamente verso il nulla, impalpabile e senza fantasia. In realtà, per chi fosse sopravissuto a queste 2 mazzate, ecco “Essaouira”, 7 minuti minimali e sussurrati per farci planare nella noia più assoluta senza trovare pace: uno space rock in cui la la speranza dell’ascoltatore è veramente perdersi nello spazio per scoprire nuove forme di vita più interessanti di quelle che stanno producendo questa miseria. In fatto di minimalismo e spazio aperto pure “Yesterday is Just a Song” non scherza, forse vorrebbe citare Vangelis, mah, ma almeno sono 3 minuti e mezzo.
Ma…mio Dio, qualcosa di veramente buono e degno realmente di nota in questo disco c’è? Grazie a Dio si ed è anche piuttosto buono. Parliamo di “Light In A Quiet Room”, con la sua prima parte veramente spaziale e lisergica (Spacemen 3 docet!) seguita dal lungo finalone sonico, con quel silenzio magistrale anticipato da piccole note di piano, una sospensione sublime creata con altissima classe, poi ecco l’incedere pesante e compatto di “Midnight Rider”, che, con quei tocchi di chitarra che mi ricordano il primo The Edge e synth ondivaghi, è capace, pur senza fare chissà quali grandi cose, di portarmi in un mondo oscuro e insicuro e infine la perla assoluta, che risponde al nome di “Portland Rocks” che, ditemi quello che volete, conferma semplicemente che alla fine le cose che ti vengono meglio sono quelle che, nella tua carriera, ti hanno dato più soddisfazioni e non aggiungo altro.
Alla fine, pur con tutti i buoni propositi, i ripetuti ascolti e l’amore che ho per i Ride, non riesco a dare un voto sufficiente al disco e a farmi arrivare a arrivare a questo giudizio, oltre a dei brani realmente poco incisivi, mi rendo conto che ha contribuito non poco anche un lavoro decisamente non all’altezza sulle chitarre (scelta di mixaggio e produzione, certo, ma che non paga) e un Loz ancora sottostimato e sottoutilizzato. E questa è una pecca gravissima.
Attendo di vederli live, forse questi brani, mescolati ai classici e arrangiati in modo diverso, potranno avere una luce diversa ai miei occhi.