Prodotto da Rick McNamara e giunto quasi alla vigilia del ventesimo anniversario del loro album di debutto (“Love Is Here”), il nuovo capitolo discografico degli Starsailor – “Where the Wild Things Grow”, questo il titolo del disco in questione – è uno di quei lavori che si spostano con fermezza dal passato al futuro senza perdere o snaturare tutte quelle peculiarità che hanno reso la band di James Walsh una delle realtà più apprezzate all’interno del circuito brit-pop. Poco da dire.
Già. Perché l’opera nuova dei Nostri, pur essendo stata realizzata a cavallo fra la pandemia da Covid ed il divorzio del sopraccitato frontman, riporta gli Starsailor in un habitat più consono a quella che è stata la loro Storia musicale nel corso degli Anni Duemila.
“Dead On The Money”, per esempio, non è altro che una squintalata di suoni destinati a diventare una sorta di momento catartico e liberatorio durante i live della band inglese, mentre le note languide di “Enough” dimostrano che Walsh e soci riescono ad essere piuttosto credibili anche quando decidono di cambiare decisamente registro e spostarsi in dei lidi ben più confortevoli (e radiofonici).
Un discorso a parte, invece, lo merita la bellissima ed epica traccia iniziale, “Into The Wild”. Sì. Perché si tratta di un brano che mette sin da subito le cose in chiaro: dimenticate gli Starsailor melliflui del precedente “All This Life” (2017), questa volta, l’antifona, è dannatamente diversa e ben più gustosa. Altroché. E lo stessa, entusiastica riflessione, se vogliamo, la si potrebbe estendere pure a brani quali “Flowers” o alla stessa title-track (in quest’ultima, tra l’altro, appare oltremodo preponderante una certa influenza seventies).
È musica destinata ad incapsularsi nel tempo, quella di “Where the Wild Things Grow”. Poco ma sicuro. Basti pensare all’incedere epico e in odor di eterno di un pezzo atavicamente sbrilluccicoso come “Heavyweight” o alla malinconica sacralità di “Hard Love”. Dopotutto, dovrebbe essere proprio questo il compito della (buona) musica: ovvero, riconciliare sé stessi con il tempo e lo spazio. Ed allora tanto vale perdersi tra i meandri luccicanti di un album che avrebbe potuto possedere degli spigoli ben più crepuscolari – considerate le premesse di cui sopra – e che invece si mantiene su delle coordinate maledettamente sfavillanti.
“Last Shot” e, soprattutto, “Hanging In The Balance”, fanno abbassare meravigliosamente il sipario di un disco che riesce ad eccellere per la propria, poetica normalità. Un dettaglio, quest’ultimo, per nulla scontato. Spesso, infatti, l’arte più “alta” si nasconde alle spalle e nell’ombra delle pieghe più semplici. Quasi banali.
Gli Starsailor, in definitiva, hanno confezionato un ritorno per tutti, ma non da tutti. Art is here.