Di Enrico Sciarrone
L’ultima volta a Ferrara nel 2022 con i JAMC non c’eravamo lasciati bene. Era stata una bella delusione (performance decisamente sottotono), una sorta di occasione mancata, frutto di un atteggiamento un po’ umorale della band, poco attento, direi superficiale se a venir meno era stata proprio uno dei punti cardine di una performance e cioè l’equilibrio sonoro, un sound check maldestro che diede luogo ad una acustica simile ad un pastone indefinito di voci e suoni che rendeva tutto difficilmente riconoscibile.
Ebbi un tale disappunto da farmi ripromettere che la prossima volta col cavolo che ci sarei ricascato.
Le passioni musicali non sono cosi diverse da quelle relazionali affettive, hanno anche una loro dinamica perversa, spesso irrazionale tanto sono mosse dall’emotività piu’ profonda, si ama perdutamente cosi come si soffre quando ci sente traditi. La storia controversa e tormentata dei JAMC progenitori di un sound unico che al tempo ci ammaliò perdutamente, protagonisti di alterne fortune e rovesci rovinosi in fondo non è altro che il frutto di una dinamica umana conflittuale tra fratelli che ha avuto un culmine negativo estremo ma che poi solo la consapevolezza, il senso di responsabilità e buon senso di entrambi ha prodotto una certa armonica convivenza che si è riverberata inevitabilmente sulla produzione. Se infatti “Damage and Joy” l’album della riappacificazione (dopo quasi 10 anni) recava ancora scorie e postumi del passato, in una sorta di auto celebrazione nel riproporre sostanzialmente le medesime sonorità, il nuovo “Glasgow Eyes” non rappresenta certo l’apogeo della loro discografia, ma ha il merito di darci una chiave di lettura dei nuovi JAMC più inclini alla sperimentazione (introduzione dell’elettronica) e a rimodulare e mettere in discussione sonorità (come l’abbandono dei distorsori verso una chitarra maggiormente prot agonista e non più “ riempitiva” come dichiarato recentemente dello stesso William Reid) che li hanno reso celebri senza poi rinnegare se stessi.
Tutto questo è emerso chiaramente nel corso dell’unica data italiana dei JAMC tenutasi all’Alcatraz di Milano (consolidata location per struttura e organizzazione) dove ad accorrere copiosi, fino al quasi sold out della sala, sono stati soprattutto coloro che i JAMC li hanno visti nascere, quasi a sancire un rapporto viscerale. Buona comunque la presenza giovanile perfettamente a suo agio. D’altronde non è solo un tour promozionale dell’album sopracitato ma anche celebrativo per i 40 anni di carriera della band a cui nessuno sembra voler mancare. Prima della “festa” però una breve ma doverosa menzione per il gruppo di supporto gli slowcore Deathcrash autori di un set molto interessante fatto di brani introspettivi e sonorità malinconiche sapientemente miscelate a chitarre deflagranti tratti dall’ultimo lavoro “Return”.
Tempo del cambio di scena e dell’arrivo della strumentazione dei JAMC dove campeggiano gli amplificatori con la scritta JESUS (a prova di furto) che inizia un vero e proprio ROLLERCOASTER (giusto per citare i nostri) all’interno del loro mondo. I JAMC, consapevoli delle aspettative del proprio pubblico, hanno confezionato una scaletta abbastanza omogenea, un mix tra nuove proposte e brani del passato pescando praticamente da tutti gli album della produzione per una performance di altissimo livello, tirata e impeccabile. E sono stati grandi emozioni. Ci piace ricordare l’esordio inaspettatamente elettronico col brano di apertura molto coinvolgente “Jamcod” (tratto dall’ultimo album peccato che non vi fossero i synth ma solo basi pre registrate) e subito l’entusiasmo generale per il tuffo nel passato con “Happy when it rains” da “Darklands” per risalire alle atmosfere di “Automatic” con “Head On” e “Blues from a Gun” per arrivare alle recenti “All thing pass” e “Amputation” di “Damage and Joy” per rimpiombare nell’amarcord puro con gli estratti da “Psychocandy” (album piu’ gettonato) con le malinconiche “Some Candy Talking” e “Just like Honey” (ove Jim Reid è coaudiuvato dalla voce strepitosa di Marta del Grandi) che hanno straziato i cuori di tutti i presenti (che non attendevano altro, vista la totale levata generale di smartphone che nessun altro brano ha registrato) cosi come ha fatto un enorme sensazione una versione di “In a Hole” arrangiata per la volta con chitarra rock ben solida e non più sotto un diluvio di distorsioni. E se una “Sidewalking” da “Barbed wire kisses” è risultata essere ben più trascinante in versione live, i brani estratti dal nuovo lavoro (la minimale “Chemical animal”, la travolgente e omaggiante “Eagles and Beatles”, la interlocutoria “Pure poor” e l’energica “Venal Joy”)
risultavano convincenti anche se, a mio modesto parere, avrei visto benissimo l’ultra pop “Silver Strings” e il loro superbo omaggio ai Velvet, “Hey Lou Reid”. Ma tant’è li conosciamo, dei perfetti bastian contrario.
Eccoli infatti eseguire un atto d’amore verso il Rock and Roll (da “Munky” ) e nei bis il loro odio. E su quell’onda sonora finale si incastra perfettamente una straordinaria e infinita versione di “Reverence”, ultimo brano del concerto, dove mentre Jim dichiara di voler morire si consacra definitivamente quell’intento già dichiarato da William Reid di rendere la sua chitarra sempre piu protagonista e non piu’ un corredo sonoro accennando a più riprese un altro omaggio , stavolta agli Stooges.
William e Jim non sono piu’ quelli di volta, come del resto non lo siamo piu’ anche noi. Non voltano piu’ le spalle al pubblico o lo ignorano come un tempo, Jim presenzia il palco con sicurezza e presenza scenica, dialoga brevemente e si concede anche delle battute. E’ già tanta roba. William con il suo ciuffo imbiancato è parte della band, concentrato con la sua chitarra per tutta la performance ma a modo suo si concede al pubblico e fa tenerezza vederlo, mentre a fine esibizione, posa la chitarra e raccoglie subito tutte le scalette da terra per lanciarle una ad una al pubblico in delirio. Poi che allo scuro di un tempo si aggiungesse luce e che i volumi si sarebbero abbassati era solo questione di tempo.