Primo tour “come se deve” per i Bobby Joe Long’s Friendship Party, l’oscura combo romana già autrice di quattro album, imbarcatisi in quattro date primaverili nel nord Italia lontani dall’Urbe. Nati autarchici, prima di trovare la mano tesa della Contempo di Firenze, tornano nella loro città d’adozione discografica dopo vari successi di critica, tra cui il nostro (e perfino l’imprevedibile endorsement di Morgan in una puntata di X-Factor). La location è prossima alla stazione ferroviaria di Campo di Marte, il locale non pienissimo (ma è giovedì, e la Fiorentina ha appena giocato un’importante partita di coppa nello stadio adiacente) pur compensato dalla generosità degli astanti, un composito crogiuolo di varia anagrafe ed abbigliamento.
Verso le undici sale sul palco la band. Si parte con la raccapricciante ironia di “Sesso coi morti in una bara piena di topi” da “Roma Est” (2016), la pietra fondante di questo scandalo artistico, poi è subito la volta di “Aka Lawrence d’Arabia”, il brano metallaro della setlist. I BJLFP sono grandemente smaliziati e non fanno nulla per ingraziarsi subito il pubblico, sanno che non ne hanno bisogno: the best is yet to come.
Dei brani più vecchi resterà poco: l’ipnotico gorgo nonsense di “Vortice de Totip”, ancora dal disco d’esordio, la title track di “Bundytismo” (2017), e qualcos’altro da “Semo solo scemi” del 2019 (“#Perlasovranitànazionale”, tragicomica esaltazione della politica estera decisionista del governo Craxi, e “Magno bevo e tifo Roma” sul chiudersi della serata, a rimarcare l’appartenenza al territorio), perché il grosso proviene dal più recente “AOH!” (2022), suonato quasi per intero, e da un paio di singoli usciti nell’ultimo anno, “Obbligo prassi e filosofia” e “Giovan Maria Catalan Belmonte”, coi loro cori ripetitivi vibrati all’unisono da un nocciolo di pubblico fedele come una truppa militante.
Nei momenti più caldi si balla come nei club alternativi, si poga come ai concerti punk, si ride come in una stand-up comedy. Questo improbabile mischione di sottoculture kitsch, da perdenti di periferia, che non mi risulta abbia epigoni, ha il gran dono del sincretismo “sociale” e lega fra loro le istanze di tutta una generazione di over 30 che si è presa in faccia un paio di recessioni epocali e tira avanti la baracca tra un contratto a termine e un’improvvisa emergenza di qualcosa (il virus, il clima, la guerra, l’allineamento degli astri).
Il frontman Henry Bowers, baciato da un’impagabile strafottenza, magnetizza la scena con anarchia situazionista, prendendosi talmente sul serio da risultare irresistibile, una macchietta da fumetto hardboiled. I membri della band, agghindati come serial killer sadomaso, tirano la volata compìti e coesi (Ciangretta alla chitarra si permette anche un paio di virtuosismi da guitar hero, la base ritmica tempesta lo stomaco con schianti metronomici e bassi rombanti). Per ovviare alla svolta elettronica delle ultime uscite talvolta vengono utilizzate basi pre-registrate, e alcuni brani si concludono come brevi dj-set (le fratture hip-hop di “Notte de Varpurga”, la messa techno in “Happy Birthday”).
I BJLFP confermano le nostre sensazioni e passano a pieni voti anche la prova live. Copiando tutto e assomigliando a nulla, la loro è ormai un’arte urbana iper-realista fortemente connotata dagli stilemi del contemporaneo, anni luce avanti ai tanti presunti gruppi “indie” nostrani, ed è un piacere vedere che i loro confini si stanno allargando anche al di fuori della capitale, assimilando un crescente ed eterogeneo seguito di rincoglioniti a cui mi iscrivo con orgoglio e vanto.