Ok, faccio prima a dirvi cosa non mi piace del nuovo (e secondo) album dei favolosi Kindsight di Copenhagen. In primis la copertina, perché non sono un feticista dei piedi, ma se lo fossi credo sarei già in ginocchio e poi, giusto perché con loro voglio spaccare il capello, il finale (a mio avviso) fin troppo lungo di “Easter and the Boys”, che magari meritava una sforbiciatina. Poi per il resto, vostro onore, ho finito e dichiaro l’imputato meritevole di lodi, applausi, stima e magari anche la possibilità di entrare nella corsa per il disco dell’anno.
Troppo? Eh no! Perchè qui i nostri danesi preferiti vanno oltre a quanto già c’era di buono in “Swedish Punk” e mettono tutti i tasselli al posto giusto, ampliando al massimo un talento che era già notevolissimo. Quindi in “No Shame no Fame” è tutto all’ennesima potenza, dalla melodie indie-pop, ai ritornelli allo zucchero, alle impennate shoegaze e il bello è che tutto si mescola e s’incastra alla perfezione, in un puzzle entusiasmante.
(Ancora) Più energia, più consapevolezza, più intensita, più affiatamento in una scrittura che è diventata irresistibile e noi qui a non credere nemmeno di essere svegli, perché certe cose meravigliose le sentiamo o le vediamo solo nei sogni.
La band ha la capacità totale e assoluta di scivolare, con pieno controllo, sui riverberi sonici degli Alvvays, passando per travolgenti puntate in territori anni ’90, tra fragore, power-pop e jangle, mentre le costruzioni sonore intorno a noi sono così scintillanti ed inebrianti che è impossibile non farsi coinvolgere in questo tripudio indie-rock.
“Acid Islan 45” parte già a testa bassa, con la batteria forsennata di Johannes Jacobsen che incalza senza sosta. Ci potremmo quasi attendere un disco dalle tinte pop-punk, mentre già intuiamo che Nina Hyldgaard Rasmussen farà di tutto per catturarci con la sua voce angelica e Søren Svensson alla chitarra avrà parecchie carte da giocare: insomma una partenza con il botto, ma che non ci prepara completamente alla varietà che andremo a toccare nel disco.
“Eyelids” è già summa completa e trionfale, un bignami d’indie-rock perfetto non solo per capire meglio la band ma proprio per darci l’esatta idea del perché questi danesi se la possono giocare con i migliori. Dolcezza, melodie cristalline, chitarre quasi alla MBV che fanno capolino…io potrei impazzire di fronte a una simile magnificenza. Una canzone tanto perfetta che a risentirla in loop manca il fiato…ossigeno troppo puro, ci gira la testa. Anni ’90 a noi con “Love You Baby All The Time”, in cui carezze e muscoli giocano a comparire e scomparire e in questo nascondino musicale vince sempre l’ascoltatore. Da notare quel lavoro ritmico tribaleggiante che da un tocco esaltante al brano. Quando si dice che i particolari fanno la differenza. “Tomorrow” è semplicemente quella canzone indie-pop che si vorrebbe sempre sentire dopo una brutta giornata, perché costruita per farci tornare il sorriso, la pelle d’oca, il batticuore dalla felicità.
“Killing Eye” è come l’intervallo tra il primo e il secondo tempo. Un momento per rifiatare, per rendersi conto di quelo che abbiamo sentito e per prepararsi a nuovi splendori. Il bello è che verrebbe da chiamarlo “brano minore” perché praticamente chitarra/voce e invece è di una bellezza che mi fa commuovere.
“Madhouse Breakout Multitool” è ancora trionfalmente anni ’90. Non so, immaginatevi i Pavement che se la spassano con i Cardigans, boh, io sto volando altissimo…vi prego sentitevi il finale. “Teracotta Team Song” è un giro sulle montagne russe, forte/piano e poi via con la linea melodia delle voci che incontrano la chitarrona abrasiva e l’assolone super distorto. Ma subito di corsa, senza fermarsi un momento, verso “Top 10 Things You Need in the City” che alza i giri del motore in un ritornello che entra subito in testa con una ripetizione che ti trovi a canticchiare anche se non vuoi.
Praticamente senza accorgersene siamo alla fine, con “Easter and The Boys”, si, quella che citavo all’inizio per il finale un po’ troppo lungo, solo che prima di questo finale, eh…anche qui ci si stropiccia gli occhi dall’incredulità. La partenza con una la dolcezza quasi bucolica e pastorale, quel momento di silenzio con la voce di Nina e poi ecco che partono ritmica, chitarra e synth, un tappeto sonoro su cui le voci si fanno un botta e risposta magnifico e il sound chitarristico, quasi spaziale, che ci accompagnerà per altri 6 minuti e mezzo inizia a fare capolino, come fosse un loop infinito in cui perdersi o, forse, ritrovarsi, mi viene da dire, perchè dopo tanta varietà è anche il caso di ritrovare una direzione, seppur lisergica, per riassaporare al meglio tutto quanto abbiamo sentito e, ovviamente, essere pronti a risentirlo ancora, ancora e ancora. Sta a vedere che mentre scrivevo mi sono pure ricreduto sul lungo finalone del brano…