Il duo dei Lamb, formato a Manchester dal produttore Andy Barlow e dalla cantante Lou Rhodes, ha rappresentato da subito un’anomalia nel ricco e frastagliato panorama musicale inglese degli anni novanta.

Ascrivibili per brevità al movimento trip-hop, al loro interno presentavano invero una miriade di influenze e di derive artistiche, provenienti dal particolare background dei due protagonisti (quanto di più diversi non potevano essere!), dalle loro preferenze e da una creatività che sgorgava libera, quasi inarrestabile, così come il desiderio di approdare a un linguaggio diverso e, per questo, giocoforza molto personale.

Era facile comprendere sin dall’interessante debutto omonimo, pubblicato nel 1996, quanto oltre alle suggestioni bristoliane (di band come i Portishead ad esempio) ci fossero nel loro sound altri elementi ben riconoscibili, presi di volta in volta dal drum’n’bass, dal dub, così come dalla jungle, che grazie ad esperienze felici come quella di Goldie stava prendendo piede in modo dirompente nel mercato britannico e non solo.

A questo, imprescindibili, andavano aggiunti le inclinazioni dei Nostri, la vocazione da deejay sperimentatore di Barlow e l’anima folk cantautorale della Rhodes, la quale spiccava oltremodo per la bellezza di una voce dotata di autentica grazia comunicativa.

La sfida consisteva nel far centrifugare il tutto senza trasmettere un senso di confusione e di inadeguatezza, e in questo c’è da dire che i Lamb sono riusciti a dissipare presto i dubbi, basta ascoltare un singolo come “Górecki” che di quel primo disco funge da brano-manifesto, arrivando alle orecchie di molti grazie ai successivi inserimenti in spot e colonne sonore (al pari di “Gabriel”, che però sarebbe arrivato più tardi, reso famosissimo anche in Italia come motivo portante del teen-movie nostrano “Tre Metri sopra il cielo”).

Nel mezzo però c’era stato l’atteso secondo album, quello decisivo per le sorti del duo, come detto ancora alla ricerca della formula perfetta per compiacere i palati fini senza disdegnare dei passaggi più facili e accessibili, secondo la lezione appunto dell’imperante trip-hop che sapeva unire, nelle sue forme migliori, a composizioni ben strutturate e codificate delle melodie che si facevano ricordare (valga come esempio un nome su tutti: “Teardrop” dei Massive Attack).

Nel 1999 quindi era tempo di “Fear of Fours”, titolo allusivo che sottintendeva una sorta di ritrosia di Andy Barlow per i pezzi “facili” in 4/4 (e in genere per le trame musicali dirette e lineari).

Detto fatto, il disco si apre con una traccia che non si ha remore a definire ambient, in quanto l’eterea “Soft Mistake” ne contiene tutti i crismi, nonostante sfoci in un finale tempestoso dove fanno capolino delle percussioni tribali.
Un inizio soft, a tratti sognante, che però va prontamente rimesso in discussione dalle sonorità pirotecniche di “Little Things”, quelle sì appartenenti al mondo jungle.

Appare urticante, con i suoi tratti nevrotici pure la successiva “B Line”, in cui a fatica Lou Rhodes prova a emergere soffocata com’è dai dardi elettronici lanciate in orbita dal suo compare. E quando finalmente il buon Andy decide di defilarsi con le sue diavolerie per darle campo, ecco che inaspettatamente la talentuosa vocalist se ne esce con una interpretazione sin troppo carica: accade nella sinistra e cantilenante “All in Your Hands”.

Le cose si riassestano con il breve ed evocativo intermezzo di “Less Than Two” che ci riconsegna una certa sobrietà di cui si sentiva il bisogno e fa da apripista al pezzo forte dell’opera, una “Bonfire” dai toni struggenti, impreziosita non solo da una performance vocale degna di epigoni come Beth Gibbons, ma anche da un raffinato e solenne arrangiamento d’archi.

Da lì in poi, nella sua seconda parte, il disco fa definitivamente pace con se stesso, trovando la giusta alchimia e garantendo un buon equilibrio tra l’anima sperimentale di Barlow (particolarmente affascinante nella strumentale “Ear Parcel”) e quella classica di Lou, la quale emerge in “Fly”, forse la traccia più immediata del disco, trovando il suo apogeo nella conclusiva “Lullaby” (che curiosamente nella versione CD è posta a inizio scaletta come hidden track).

“Fear of Fours”, a distanza di venticinque anni, si può a ragione considerare un lavoro riuscito, pur non nascondendo delle insidie che rendono a tratti ostico il suo ascolto; è un album che avrà modo inoltre di ben figurare nelle charts, preparando il terreno al più rilassato e omogeneo “What Sound”.

Tuttavia, i Lamb, seppur apprezzati dalla critica e con un pubblico crescente che saluterà in modo positivo anche la notizia della ripresa della loro attività dopo il brusco scioglimento del 2004, non riusciranno mai a diventare totalmente mainstream, avendo mantenuto sempre intatta quell’aura enigmatica e misteriosa.

Data di pubblicazione: 17 maggio 1999
Registrato: presso “The Toyshop Studios” di Manchester e “Townhouse Studios” di Londra
Tracce: 14
Lunghezza: 55:22
Etichetta: Fontana – Mercury
Produttore: Lamb

Tracklist:
1. Soft Mistake
2. Little Things
3. B Line
4. Untitled
5. All in Your Hands
6. Less Than Two
7. Bonfire
8. Ear Parcel
9. Softly
10. Here
11. Fly
12. Alien
13. Five
14. Lullaby