Credit: Michele Sanseverino

“Daccapo”, che splendida parola, ma è davvero possibile farlo? E’ davvero possibile ricominciare daccapo? E’ davvero possibile trasfigurare il tempo? E’ davvero possibile ritrovare il filo misterioso che lega gli eventi, le esperienze, le emozioni e le esistenze? Forse ci riescono solamente i dischi, le nuvole ed i matti.

Forse bisognerebbe saper essere felici, tutte le volte che ne abbiamo la possibilità, sfruttando, al meglio, quello che abbiamo a disposizione, tentando di creare qualcosa da trasmettere agli altri, da comunicare a chiunque abbia voglia di ascoltare la voce di una batteria – quella di Vittoria Burattini – o la voce di una macchina elettronica – quella di Francesca Bono – così da entrare in quella dimensione catartica nella quale non ci sono più eccessi, ma solamente accattivanti sfumature, ritmiche pulsanti ed una sovrapposizione di elementi digitali ed analogici, di terra e di cielo, di amore e passione, di realtà e fantasia.

La stessa fantasia che scorre, fluida, nelle sonorità cinematografiche di “Suono di un Tempo Trasfigurato” e che si adatta, alla perfezione, a quello che è stato, un tempo, un cinema, un luogo di gioco e di evasione, ma anche di riflessione e di analisi – attraverso storie apparentemente distanti – delle nostre scelte, delle nostre giornate, delle nostre prospettive, delle nostre vite. Questa è l’atmosfera che si respira, infatti, nell’ex-cinema Eliseo di Avellino, mentre va in scena la terza serata dell’Out Here Festival, tra groove fantascientifici, trame sintetiche, sperimentazioni elettroniche e la capacità di costruire, con la propria musica, dei veri e propri cortometraggi visuali, senza, però, che ci sia bisogno di uno schermo esterno su cui proiettare le immagini, perché esse prendono forma e consistenza direttamente dentro di noi, modellando, a nostro piacimento, il tempo e lo spazio, e permettendoci, finalmente, di iniziare daccapo, di ritrovare tutti quelli che abbiamo perduto, di sentirne ancora la presenza preziosa, mentre visitiamo luoghi, geografie, posti e latitudini che non abbiamo mai visto prima e che, forse, non esistono ancora.  

Credit: Michele Sanseverino

Un elemento fondamentale, quello del viaggio, come fonte di contaminazione, di conoscenza, di crescita, di ispirazione e di maturazione, che ci porta dritti al secondo spettacolo della splendida serata irpina, quello di Marta Del Grandi, la cui musica suona proprio come le nuvole; le nuvole che sono in grado di spostarsi da un luogo all’altro, coprendo enormi distanze e superando qualsiasi confine o limite o barriera materiale gli esseri umani abbiano deciso di edificare per giustificare la loro, spesso assurda, rabbiosa e bellicosa, brama di potere, di prevaricazione, di controllo o di possesso.

Le atmosfere si dilatano, la sala assume la consistenza di una macchina del tempo, osserviamo lo scorrere delle ere, il fiorire delle civiltà, la celebrazione e la successiva caduta degli antichi miti ed eroi, mentre, nel frattempo, il mondo muta, i nomi cambiavano, la filosofia e poi la tecnologia ampliano le loro sfere d’influenza, ma noi restiamo, essenzialmente, sempre gli stessi, con le medesime passioni, i medesimi sentimenti, le medesime responsabilità, le medesime promesse infrante.

La voce di Marta Del Grandi è il carro di Apollo, è la vetta possente dell’Annapurna I, è un minuscolo e fragile fossile nascosto nei meandri oscuri e materni della terra, è una storia itinerante di caffè bollenti, di albe improvvise, di divagazioni avanguardiste di matrice jazzistica, di tramonti infuocati, di risposte mancanti, di fede nella natura, di fiducia in ciò che di buono e di costruttivo ancora risiede negli esseri umani, anche quando ogni decisione politica, economica e sociale sembra essere l’ulteriore, definitivo passo verso la distruzione di questa splendida casa. Una casa che abbiamo il dovere di custodire, per ogni essere vivente del passato e del futuro, senza timore o paura nei confronti di ciò che non conosciamo, ma cercando il punto di contatto e tutte le possibili e interessanti connessioni spazio-temporali tra luoghi e persone diverse, tra le leggi fisiche del mondo e la poesia, tra leggende, tradizioni, narrazioni e letterature diverse, cercando di amplificare e di esaltare i sentieri tortuosi di questa selva mediatica; sentieri che si intrecciano in forme mai viste prima, dentro e fuori ciascuno di noi, nelle ore notturne e diurne, nel nostro cuore, nelle nostre coscienze silenziose, nelle nostre menti, nelle nostre parole, in tutto quello che facciamo, quotidianamente, nelle nostre città, nei nostri paesi, durante i nostri piccoli e grandi viaggi reali o fantasiosi, non importa, se ogni singola volta riusciremo ad essere meravigliati, stupiti, desiderosi di conoscere, di comprendere, di iniziare daccapo.