Nove Grammy Awards e nessun segno di resa per Sheryl Crow. O, meglio, nessun addio come preannunciato – forse troppo precipitosamente – all’epoca di “Threads” (2018). Poco male. Già, perché con “Evolution” – la sua ultima fatica discografica – Sheryl Crow ci dimostra che con l’avvento della pandemia non tutto è andato disperso. Soprattutto la creatività.
Nelle nove tracce (dieci nell’edizione deluxe) che vanno a comporre l’opera nuova della Nostra, infatti, si respira una certa aria introspettiva che ben si sposa con l’intento riflessivo dei brani presenti all’interno dell’album. La title-track, per esempio, affronta un tema piuttosto delicato come quello dell’intelligenza artificiale, con il cantato (impeccabile) della Crow che sembra quasi voler rivendicare l’essenza concreta e fascinosa di un prodotto realizzato da un Artista vera e non solo perché in carne ed ossa.
Prodotto e co-scritto da Mike Elizondo, che ha lavorato con artisti del calibro di Eminem, 50 Cent e Nelly Furtado – solo per citarne alcuni – “Evolution” sciorina tutte quelle peculiarità che hanno contraddistinto nel corso del tempo la cantautrice statunitense. Poco da dire. Provando ad addentrarci in maniera ancor più approfondita tra le pieghe sonore del disco in questione, la traccia di apertura, “Alarm Clock”, richiama un po’ a “(I Can’t Get No) Satisfaction” degli Stones, con le sue linee di chitarra dal suono scanzonato ed accattivante. O, almeno, fino al sopraggiungere del ritornello (anch’esso piuttosto orecchiabile) che si fonde con un sound un tantino più pop ma decisamente a fuoco.
“Do It Again”, l’unica canzone dell’album prodotta da John Shanks, suona come una sorta di b-side di “Soak Up the Sun”, ma con degli svolazzi di armonica blues ed alcune chitarre davvero taglienti. “Love Life”, invece, inizia con dei sintetizzatori spaziali prima di trasformarsi rapidamente in un giro di organo e di chitarra dal sapore blues. La melodia – per chi scrive, una delle migliori del lotto – appare calda ed invitante proprio come il messaggio che racchiude.
Va da sé, naturalmente, che “Evolution” non brilli della stessa luce degli album di un tempo. La sensazione, infatti, è che Sheryl Crow sia voluta ritornare in pista più per la propria (schietta) urgenza compositiva – a dispetto della compattezza sonora in generale – che per un mero desiderio di arrivare ad un pubblico maggiormente generalista. Tuttavia, il nuovo album dell’artista originaria del Missouri, riesce a strappare una sufficienza più che meritata.
In definitiva il ritorno della cara Sheryl non è stato invano. Un mostro sacro delle sette note resta tale nonostante tutto.