Già il solo fatto di ricevere la notizia che stava per uscire il nuovo album di Beth Gibbons è stata una fra le sorprese più confortanti dell’anno, un bel mattone di accumulo del senso della speranza e dell’amatissimo e tanto vituperato senso della ciclicità delle cose, che nel percorso artistico di questa icona musicale, nata negli anni 90 e miracolosamente sopravvissuta a tutti i generi e le mutazioni sonore, trova tutte le sue caratteristiche.
Basti pensare che è dal lontano 2002 che la si aspetta, e non si è mai smesso di aspettarla, andando continuamente a spulciare se era ancora in buona salute, chiedendosi frequentemente che fine avesse fatto, scovandola in qualche sporadica apparizione, insomma, notando che più era assente più si faceva sentire la sua mancanza: potere del mistero e della forza magnetica di questa singolare interprete, così da sempre refrattaria all’esposizione mediatica, alle modalità canonicamente riconosciute di costruzione delle relazioni, talmente libera di fluttuare nel suo mondo che insomma dobbiamo solo ringraziare ogni sua apparizione.
“Lives outgrown” riflette dalla prima all’ultima nota tutto questo mestiere di vita, frutto anche del decennale periodo di scrittura delle canzoni che alimentano la sensazione di un rapporto duraturo ed in fieri del processo compositivo e della amata lentezza nel riversare il tutto in un prodotto commerciale finito, ma anche di come per magia, questi brani siano magmaticamente connessi con lo scorrere del tempo, rendendo le riflessioni che suscita, consistenti e quasi plastiche.
Nella sua commovente intensità, l’album in un qualche modo fissa in una specie di romanzo musicale, i pensieri della Gibbons, cogliendola in quel momento di indefinibile durata fra lo sguardo incerto nel futuro e la risacca del passato, in sospensione fra rinnovati e continui desideri, come se la ricerca di intimità corrisposta non avesse mai fine ma rimanga sempre l’ultima ed unica aspirazione, la cui assenza ci fa vagare e disperdere in ogni momento (“Floating on a moment””), quando invece dovremmo essere sempre consapevoli di godere di quello che si ha qui ed ora.
Questa di fatto prima fatica dell’artista britannica nel suo non sempre lineare dipanarsi ha l’enorme capacità di permettere un’immediata sintonia con l’autrice, segnale ancor più rilevante dell’importanza dell’album e di come questo sentimento di desiderio travolga e accomuni anche i fan alla figura della Gibbons, che musicalmente rimane nell’alveo della sua ultima ed unica produzione, quel “Out of Season” di inizio millennio, un minimalismo folk quasi bucolico, con atmosfere degne della grande tradizione inglese di questo genere, spaziando dal Van Morrison più liquido ad accenni acustici psych pinkfloydiani, riprendendo un certo gusto per un dinamismo tribale disturbato tipo Portishead “Third”, dove la straordinaria interpretazione vocale, non si capisce se volutamente ancor più ricercata da un livello di produzione che suggerisce la sua lontananza dal centro della musica, cattura per la immutata facilità di espressione, per la compostezza delle entrate ed uscite, per il vibrante tono che dà ad ogni singolo passaggio cantato.
“Lives outgrown” scivola così, più intenso che mai, scalda e soddisfa con alcune delle canzoni più belle mai scritte dalla Gibbons (“Floating On A Moment”, “Whispering Love”), rincuora ancora nel restituirci un’artista il cui unico peccato è l’estrema parsimonia delle uscite discografiche, in grado a distanza di decenni oramai di lasciare immutato ogni singolo momento di bellezza associato alle sue canzoni, ogni piccolo sussurro d’amore che ci regala.
“Leaves of our tree of life
Where the summer sun
Always shines through the trees of wisdom
Where the light is so pure“
(“Whispering love”)