Poteva essere un grande film e invece gli manca qualcosa, che non riesco a identificare del tutto. Forse non graffia come mi aspettavo, non nel suo comlesso.
Più che il contesto di disordine e lo stato di guerra civile che dilaniano la sedicente più grande democrazia del mondo, a ferir colpo per davvero sono solo alcune sue scene incentrate sull’orrore di cui è capace l’uomo in un contesto di distruzione e anarchia – efferate e pungenti infatti sia quella dei redneck alla stazione di rifornimento che quella con Jesse Plemons soldato razzista.
Visivamente è comunque un viaggio convincente e tecnicamente impeccabile, a partire dalla primissima scena con tanto di kamikaze fno al lungo assalto a Washington con la camera azzeccata alla truppa designata all’uccisione del POTUS e ai giornalisti che la seguono. Divisi in tre generazioni, una penna della vecchia guardia, un reporter e una fotografa di grido e una giovanissima ispirata da quest’ultima, questi ultimi sono il veicolo di quello che è forse il tema principale del film: la documentazione dell’orrore e l’assuefazione ad esso dei e mediante i media.
Buono il cast, guidato da una Kirsten Dunst consumata e meditativa, ottimi gli inserti musicali, come ad esempio i Suicide che innervano di sinistre vibrazioni elettroniche e singulti le autostrade americane tempestate di relitti automobilistici e fumo grigio.