Per i più distratti e poco interessati all’approfondimento, questo è il secondo album in due anni dell’ultra ottantenne ex Velvet, che sic et simpliciter potrebbe essere considerato un legittimo e comprensibile sintomo di incontinenza produttiva, al sottilizzarsi dello spettro rimasto di vita: “POPtical Illusion” invece non è altro che un ulteriore capitolo di una ribollente attività creativa che coglie John Cale in un momento prolifico e disinvolto, lontanamente assuefatto da paure o angosce esistenziali, ma dentro un percorso condivisibile di proseguimento in territori più comunemente definibili come pop music all’interno di architetture elettroniche.
Se in “Mercy” l’elemento sorpresa era riferito all’ambientazione cupa e altera, figlio di una vita passata a inseguire un’avanguardia personale, in questa nuova produzione, le canzoni sono tutte più abbordabili, l’elettronica di riferimento è una moderna forma di sostegno in chiave pop, con multiple connotazioni, col richiamo a diverse cose già sentite in passato, ma uniformemente coesa con la voce così identificabile del leader, con il solito effetto raddoppiato e distaccato; in questo album, Cale sembra voler affrontare temi come speranza e illusioni, si parla di come vedere la luce nel bel primo singolo estratto (“How we see the light”), ed in generale lo sguardo è rivolto verso il futuro, in una visione certamente di riflessione e interrogazione, ma in una versione nè pesante nè troppo angosciata dal presente: sembra anzi che si vogliano trasmettere nuove linee romantiche, i contorni della bellezza della creazione del sentimento, l’abile svisceramento degli elementi nascosti fra gli attimi di una conoscenza e di quanto questi momenti inafferrabili influenzino i nostri comportamenti quotidiani, in un rimando suggestivo ad un sentimento struggente che a tratti ricorda i brividi dei The Bule Nile.
Pur considerevole nella quantità di canzoni, ben 13, “POPtical Illusion”, al netto di un paio di episodi in meno che avrebbero accresciuto la sua compattezza, si fa apprezzare per l’elevata cura che in studio Cale ha riversato nella produzione, con un mood quasi sempre da electro ballad, tranne qualche raro momento più mosso, tipo il post punk Shark-Shark” dove riappaiono intro e cariche di un passato rock’n’roll mai evidentemente sopito.