Credit: Drew de F Fawkes, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Prendo il mio posto nella tribuna centrale della cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma e mi trovo di fronte a una scena che mi strappa un sorriso. Una folla di donne ultraquarantenni, visibilmente emozionate, attende con ansia l’arrivo dei tre Take That superstiti. Ormai non si tratta più di una semplice ex boyband britannica, ma di una vera e propria macchina del tempo che, con le sue melodie zuccherose e un po’ antiquate, ci riporta indietro ai fantastici anni ‘90.

La prima cosa a saltare agli occhi è che, tra il pubblico, le pochissime ragazzine presenti sono le figlie di quelle adolescenti che, tre decenni fa, uscivano fuori di testa per il gruppo mancuniano. Un velo di malinconia mi avvolge per un momento, sento d’improvviso il peso della vecchiaia che avanza, ma appena Gary Barlow, Mark Owen e Howard Donald salgono sul palco, tutto svanisce e inizio il mio viaggio nei ricordi.
Il caldo è asfissiante, ma l’energia è alle stelle. La cavea si trasforma in una tonnara di donne mature che, con smartphone alla mano, scattano selfie e girano video a ripetizione. L’idea di disporre esclusivamente posti a sedere si rivela subito pessima: non appena inizia il concerto, tutti si alzano in piedi, creando un assembramento pericoloso nel parterre. Addetti alla sicurezza schiacciati e un po’ di panico, ma alla fine un’apparenza di ordine ha la meglio.

Il pubblico medio dei Take That, detto con il massimo rispetto, non sembra molto avvezzo al bon ton dei concerti. Ma la loro felicità è irrefrenabile e contagia anche la band che, nonostante l’inclusione di un numero eccessivo di brani post-reunion (sinceramente, per quelli che sono i miei gusti, avrei preferito ascoltare solo estratti da “Take That & Party”, “Everything Changes” e “Nobody Else”) riesce a convincere con un buon concerto.
Lo spettacolo non ha molto di spontaneo, segue un copione preciso e ci sono pochi balletti coreografati – comprensibile, data l’età media dei membri. Tuttavia i vecchi Gary, Mark e Howard sanno ancora tenere il palco con grande carisma. Uno dei momenti migliori è l’intermezzo in cui ripercorrono la storia della band, proponendo successi come “A Million Love Songs”, “I Found Heaven”, “Pray” e due fra le pochissime tracce post-reunion per me interessanti, ovvero la celebre “Patience” e la bellissima “The Flood”, che però senza la voce di Robbie Williams perde un po’. A fare le sue veci è Howard Donald, che si destreggia egregiamente anche nell’interpretare una versione riarrangiata in chiave moderna di “Everything Changes”.

Per quanto riguarda il sound e gli arrangiamenti, i classici anni ‘90 dei Take That non sono invecchiati proprio benissimo, ma nessuno sembra farci caso. Il pubblico romano non sta a guardare a sottigliezze tecniche o stilistiche: vuole solo tuffarsi nel passato, quando tutto era più semplice e i problemi della vita adulta erano un lontano miraggio. Non a caso le canzoni più recenti vengono accolte tiepidamente, mentre pezzi come “Relight My Fire”, “Back For Good” e “Never Forget” scatenano esplosioni di gioia.
Gary, Mark e Howard sembrano sinceramente divertiti. La serata per loro è una grande festa: sul palco non sono solo dei cantanti, ma anche una sorta di animatori da villaggio turistico. Curioso (ma forse sarebbe meglio definirlo assurdo) lo sketch del picnic con alcuni prodotti alimentari da loro presentati come specialità enogastronomiche italiane: Mark Owen tira fuori da un cestino una bottiglia di limoncello, un barattolo di Nutella e una scatola di Baci Perugina, mentre un tipo dello staff passa a Gary Barlow e Howard Donald delle birre Peroni che loro bevono davvero mentre cantano l’allegrotta “This Life”.

A esclusione di questa scenetta un po’ kitsch ma tutto sommato esilarante (mai al mondo avrei potuto immaginare di vedere i Take That con delle Peroni in mano!), il concerto romano del trio inglese non ha deluso le aspettative. Probabilmente la scelta della location non è stata delle migliori: non puoi disporre solo posti a sedere quando quasi tutti vogliono stare in piedi. L’acustica eccellente della cavea ha però permesso agli spettatori di godersi appieno un’esperienza che, per molte ex adolescenti degli anni ’90, è stata non solo emozionante ma anche catartica.