“Blur: To The End” segue i Blur dalla chiusura delle registrazioni di “The Ballad Of Darren” fino al doppio trionfo del Wembley Stadium lo scorso luglio.

È un dietro le quinte che aiuta molto a contestualizzare la loro improvvisa riapparizione sulle scene e leggerla come un lungo riconnettersi gli uni agli altri e, insieme, ad un pubblico che ormai abbraccia diverse generazioni.

“To The End”, come tutto ciò che racconta, ha a che fare con il ritornare ad una dimensione anagraficamente lontana ma tutt’ora ineludibile («tanto sulla mia tomba scriveranno ‘Alex dei Blur’», dice ad un certo punto James con una consapevolezza certo non improvvisata).

La differenza con una qualunque crisi di mezz’età sta proprio lì, nella consapevolezza.

Damon Albarn (grande artefice di tutto quanto), il suo complice Graham Coxon (comunque strano e incasinatissimo), anche chi ha sempre rischiato di essere mera comparsa (Dave Rowntree e, appunto, Alex James): sono tutti lì per fare sì che le cose funzionino, per mettersi al servizio di un progetto che sanno essere più grande dei singoli, consci del significato della sigla Blur per loro stessi e per tutti noi qua fuori. Ciascuno di loro, omai fatto e finito, ha compreso di poter rinunciare a certi puntigli.

In “To The End” c’è spazio per nostalgia e lacrime, per la natura e per la città, per i malanni di oggi ed i vizi di ieri, per la famiglia e per il tempo ritrovato.

Poi scorrono i titoli di coda e, che si sia trattato davvero della parola fine o meno, in qualche modo è una grande lezione di vita e la musica, quella rimane sullo sfondo.

L’articolo, nella sua versione originale, è contenuto su ‘Non Siamo di Qui’, che ringraziamo per la gentile concessione