Noi di Indieforbunnies abbiamo cominciato a seguire le Goat Girl sin dai loro primi singoli pubblicati nel 2017. All’epoca il gruppo tutto al femminile era formato da quattro musiciste che mostravano gran talento e attitudine.
A colpire non era solo la giusta immagine, ma soprattutto la grande personalità, i messaggi che intendevano trasmettere (dalle tematiche queer a squarci attenti sulla società attuale) e prima ancora la musica, intessuta nella contemporaneità ma memore della lezione del passato, tra echi blues e folk.

Credit: Holly Whitaker

Ne è trascorso di tempo da allora, in mezzo c’è stato un secondo album “coraggioso” in cui le Nostre ampliarono il proprio raggio musicale, poi però attese al gran salto qualcosa sembrò incepparsi, proprio quando le porte del successo erano pronte ad accoglierle.

Furono motivi per lo più extra musicali a frenare la loro ascesa, gli stessi che causarono una prima defezione in seno al gruppo originario e che fecero acuire il malessere di Rosy Jones, che stava combattendo contro i demoni della tossicodipendenza.

Insieme le tre sono riuscite infine a superare il momento difficile stringendosi le une attorno all’altro, mentre l’aspetto intimo e personale andava nel frattempo necessariamente a comporre il focus del nuovo materiale artistico, quasi a voler esorcizzare attraverso l’arte il periodo più buio.

Si sono prese insomma tutto il tempo necessario e il risultato è l’album forse più autentico e viscerale partorito dalle loro menti e dai loro cuori, dove la cantante Lottie Pendlebury mostra un’espressività quasi feroce nel sottolineare e caricare quelle trame melodiche che ancora sono presenti, ma sembrano passare in secondo piano rispetto alle atmosfere evocate.

In tutto sono sedici tracce, per lo più fiammate creative brevi e intense, eccezion fatta per la dilatata e solenne “wasting” che chiude l’opera dipanandosi per oltre sei minuti, nelle quali la band da’ prova di non aver perso certo lo smalto creativo, anzi, se possibile questo si è ulteriormente innalzato, a maggior ragione se teniamo conto che lo ha fatto seguendo una propria inclinazione, senza la ricerca del facile consenso.

Sono canzoni maledettamente affascinanti quelle inserite in “Below the Waste” che aggiungono vari colori al registro sonoro delle Goat Girl, imparentandosi strettamente con certo grunge versante Breeders (che qua e là riecheggiano fino a farsi ispirazione palese ad esempio in “ride around”, la quale invero un po’ stride con la dolcezza eterea dell’iniziale “reprise”), e facendo confluire al proprio interno dosi talora anche massicce di elettronica, ai confini con la dance più spinta, vedi l’apocalittica “tcnc”.

Ogni brano riflette musicalmente uno stato d’animo diverso, e a risultare decisivo in questo sta pure il fatto che l’album è stato concepito, registrato e completato in periodi e scenari diversi, utilizzando luoghi sacri come gli irlandesi Hellfire Studios o il famoso Studio 3 di Damon Albarn, e altri per lo meno anomali come un granaio nell’Essex.

Oltre a ciò, non va trascurato che a produrre l’album ci fosse quell’eccentrico di John Murphy, già al lavoro con Black Midi e Lankum, il quale ha avuto il merito di non far disperdere tale fermento creativo, assecondandone la natura ondivaga.

Il risultato è un lavoro che nella sua disomogeneità ottiene una forma compiuta, testimonianza della grande maestria delle ragazze di saper trarre da ogni situazione un insegnamento, traducendolo con la forza di una musica che viaggia più che mai libera e pervasa da vibrante ispirazione.