Quello di Hamilton Santià è un libro ricco di spunti, un libro che ci sprona a guardarci indietro, a scavare nella nostra memoria, nei nostri rimorsi, nei nostri sbagli e in tutti quei patti amari che abbiamo dovuto, per convenienza o compromesso, accettare, rileggendo, allo stesso tempo, in maniera critica, il nostro presente, le sue false promesse e i suoi violenti rigurgiti d’odio, i quali proiettano la loro ombra, tossica e distruttiva, su un futuro che suona terribilmente sciocco, malsano, finto, virale e fraudolento. Le pagine del libro ruotano, intanto, attorno ad un termine del quale, oramai, si abusa continuamente e nel quale, oggi, senza più alcuna vergogna, ci mettiamo dentro, praticamente, tutto: “indie”. E attenzione non è solo di musica che si parla, questo è proprio uno spaccato di vita vera (Hamilton è di Torino, una città che negli anni ’90 non era più solo “la città della FIAT” con tutto quello che voleva dire e ne conseguiva), uno squarcio sulla cultura e sulla controcultura (che di solito finisce sempre male).
L’autore, quindi, ritorna, con la sua macchina del tempo musicale, agli anni leggendari tra il vecchio ed il nuovo millennio e precisamente al tragico istante nel quale Kurt Cobain decise di mettere fine alla sua narrazione terrena, trasformandosi, immediatamente, in un mito immortale (ma subito ci viene in mente Giovanni Lindo Ferretti che, dall’altro lato dell’Oceano, di lì a poco avrebbe gridato “Non fare di me un idolo mi brucerò!”). Un colpo di fucile che rompe l’innocenza ma che da il via al proliferare di una grande stagione di musica: la bilancia ha dei piatti corposi che vanno però pesati per bene e analizzati e Santià lo fà con sagacia, in modo sempre molto acuto e sopratutto risultando molto scorrevole nella lettura. Gli anni ’90 made in USA e made in UK, il grunge e il britpop, anni ironici, pungenti, liberi e ambiziosi, anche se le conseguenze poi potevano essere devastanti. E poi gli anni zero e la rabbia che monta, mentre NY diventa fondamentale a dire poco per capire esattamente il presente. Il lungo filo dell’indie è quel filo di Arianna che Hamilton Santià tende a seguire, facendo un gomitolo entusiasmante e tutt’altro che didascalico o enciclopedico: una storia personale in cui la musica non è solo sottofondo, no, è proprio la chiave per aprire le porte e per comprendere la realtà.
Negli anni Duemila, in fondo, il rumore, i feedback, le distorsioni, gli echi e le dissonanze che avevano glorificato gli anni Novanta sono ancora lì, nell’aria; non potevano, certo, scomparire da un momento all’altro ed è proprio in quei giorni successivi al 5 aprile del 1994 che la stella Indie inizia ad attrarre attorno a sé pianeti e satelliti, corpi celesti più o meno grossi, più o meno significativi, ma anche detriti, rottami, spazzatura e polvere spaziale, mentre, nel frattempo, il fascino, la risonanza e l’impatto del frontman dei Nirvana andavano ben oltre i confini del suo rock e delle etichette che i media tentavano, di volta in volta, di attaccargli addosso, cercando così di istituzionalizzare e sfruttare, ai propri fini commerciali, la sua energia grezza, ribelle ed anti-sistema. Forse sono proprio questi i tratti distintivi di ciò che, alle origini, in quei giorni andati, era l’indie, qualcosa che avesse nell’autenticità, nell’etica DIY del punk, nelle letterature e nelle poesie più crude e viscerali, in una rinnovata sensibilità umana, nella contro-cultura, negli arrangiamenti non convenzionali, nonché nei suoni sperimentali di artisti come i Sonic Youth, i Mudhoney, i Pixies o Steve Albini, i suoi tratti distintivi, senza rifiutare, a differenza di quanto era accaduto alla fine degli anni Settanta, le trame più acide, più oniriche e più psichedeliche di quei giganti e dinosauri del rock che erano stati i Led Zeppelin, Jimi Hendrix o i Beatles.
Quindi, probabilmente, fu proprio questa commistione di arti diverse – dal cinema alla letteratura, dai fumetti alla musica – di epoche diverse, di suoni diversi, di umanità diverse, sintetizzate in un unico concetto, a far sì che, successivamente, chiunque, in base alle proprie esperienze, alle proprie emozioni, ai propri gusti o, purtroppo, ai propri ritorni economici e mediatici, si sentisse libero ed autorizzato di inserire nel contenitore-indie tutto quello che ritenesse piacevole, utile, popolare o semplicemente remunerativo, arrivando, di conseguenza, alla caotica situazione odierna e, in particolare, alla peculiare e bizzarra divergenza tricolore che, nel tempo, ha condotto i più a considerare indie prima gli Afterhours e poi Calcutta (!), prima i C.S.I. e poi i Cani (!).
Ma per quanto ci affanniamo, per quanto ci azzuffiamo, per quanto polemizziamo, per quanto ci teniamo stretti i nostri beniamini e critichiamo quelli altrui, ci sarà sempre qualcuno – come, spesso, ha affermato Max Collini (Offlaga Disco Pax e Spartiti) – che è stato indie prima di te, molto prima di te.
Nel frattempo, se l’indie vi affascina, se non sapete bene cosa sia, se non l’avete mai sopportato ma tutto sommato volete dargli una nuova possibilità…beh, c’è il libro di Hamilton Santià. Noi ve lo consigliamo.
Editore: Effequ
Autore: Hamilton Santià
Lingua: Italiano
Pagine: 250 pagine
ISBN: 9791281639003