Si fa presto a parlare di ritorno al passato. La verità è che “Aghori Mhori Mei” – nuova fatica discografica degli Smashing Pumpkins – è un umile dischetto rock privo dell’abbuffata synth che aveva caratterizzato i lavori precedenti della band di Chicago. In parole povere, a ‘sto giro, il fu geniale Billy Corgan ha lavorato per sottrazione, sperando che qualche sintetizzatore in meno e qualche schitarrata in più rianimassero la stella polare della formazione musicale da lui capitanata.

Credit: Sven Mandel, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

È tutto lì il nocciolo della questione. L’anima. Quella che gli Smashing hanno smarrito da almeno un decennio e che di certo non ritroveremo ascoltando le dieci tracce che vanno a comporre l’album in questione. Per carità, qualche intuizione sonora non sarebbe neanche male. “Who Goes There”, per esempio, ha le stimmate del pezzo piacione, grazie all’orecchiabilità di una melodia che si lascia ascoltare con gusto.

E lo stesso discorso, se vogliamo, potremmo estenderlo pure a brani quali “Pentecost” (notevoli gli archi che esplodono sul finale) e “Sicarus” (ottimo connubio fra linee di basso e riff contagioso). Poco, decisamente poco, però, per un gruppo dal passato blasonatissimo. Tutto il resto è mestiere. Onesto, di qualità, ben confezionato. Ma pur sempre mestiere.

Prendete un brano come “Sighommi”. Avrebbe tutto per arrivare nelle grazie degli amanti (della prima ora) dei Pumpkins: una costruzione tiratissima, delle chitarre fiammeggianti al punto giusto, il solito ritornello lagnoso – vero marchio di fabbrica del Corgan anni Duemila – che tanto piace ai Nostri. Eppure, non riesce a decollare mai, per il discorso della mancanza di anima di cui sopra. Stendiamo un (lunghissimo) velo pietoso, invece, per tracce come “999″ e “Goeth The Fall”. In un passato neanche tanto lontano, il caro vecchio Billy le avrebbe prese in considerazione come b-side. Al massimo.

Probabilmente, si tratta dello stesso passato in cui il Nostro veniva scambiato per l’attore che interpretava il fratello di Super Vicky nella celeberrima sitcom e in cui gli Smashing Pumpkins le suonavano al mondo con brani dannatamente epici come “Rhinoceros” e “Bury Me”. Provando a tirare un po’ le somme, dunque, potremmo definire “Aghori Mhori Mei” come il (furbo) tentativo da parte di Corgan di ammaliare la propria fanbase con la pantomima delle chitarre e del suddetto ritorno al passato: la forma però non basta caro Billy, ci vuole anche la sostanza, che qui latita.

La verità, quindi, è che si tratta di un disco che riesce a raggiungere a malapena la sufficienza – sarebbe stato difficile, del resto, fare peggio dei lavori precedenti di cui questo disco è sicuramente meglio – ma che non regala altro che sbadigli, alimentando – piuttosto corposamente – la voglia di archiviarlo in fretta.  

Sarà per un’altra volta, William.