È altamente probabile che al termine di questa recensione i King Gizzard & the Lizard Wizard abbiano già pubblicato un nuovo album. La prolificità della band australiana, del resto, rappresenta una sorta di marchio di fabbrica. Neanche il tempo di metabolizzare un progetto, infatti, che subito Stu Mackenzie e soci ne cominciano uno nuovo. Ispiratissimi o troppo precipitosi?

Credit: Maclay Heriot

Beh, a giudicare dalle opere realizzate negli ultimi anni, la risposta è alquanto scontata: la verità sta nel mezzo. Come in tutte le sfumature della vita. Già. Perché “Flight b741″ – questo il titolo del ventiseiesimo album in studio dei Nostri – è un lavoro decisamente opaco, di maniera, privo del mordente (e dell’originalità) mostrato dal gruppo di Melbourne qualche anno fa.

Per carità, nulla di così scandaloso o inascoltabile, ma il disco in questione appare come l’ennesimo cambio di rotta dettato da una formula che, probabilmente, inizia a mordere un po’ il freno. I King Gizzard, questa volta, giocano a fare (con alterni risultati) gli Stones dei 70’s – con una spruzzatina del glam-rock dei T-Rex – impelagandosi in delle sonorità che appaiono decisamente telefonate e sin troppo inflazionate, come nel caso di “Field Of Vision” o della stessa traccia d’apertura, “Mirage City”. Altrove, invece, la band oceaniana prova a mescolare un po’ le carte, destreggiandosi – con successo – in giri di basso fotonici e refrain impattanti (“Le Risque”). E lo stesso discorso, se vogliamo, potremmo estenderlo pure alle armonie ben confezionate di “Rats In The Sky”.

Armonica e sezione ritmica conferiscono uno slancio ulteriore alla nuova creatura dei Gizzard, confermando l’estrema versatilità dei musicisti australiani. Epperò, la sensazione predominante resta la medesima: “Flight b741″ è un’operazione di indubitabile qualità, priva, però, di quello slancio che caratterizzava – circa un lustro fa – la discografia di Mackenzie e compagni. In definitiva, il nuovo album dei King Gizzard & the Lizard Wizard è un lavoro che raggiunge la sufficienza ma che nulla toglie e nulla aggiunge all’oramai vastissimo repertorio della band.

Continuando a scandagliare ogni piega di quell’universo variegato che è il regno delle sette note, il “rischio” è quello di ritrovare – tra qualche anno – i King Gizzard alle prese con un disco hip-hop o, perché no, reggaeton. Insomma, una fase di stanca e di fisiologica riflessione urgerebbe abbastanza. Onde evitare tristi capitomboli e sbadigli prolungati.

Essere prolifici va bene, soprattutto ai tempi di Spotify e delle direttive insindacabili di Daniel Ek, ma la creatività è un attimo fugace che non concede alcun appuntamento. Altro che dischi a cadenza trimestrale.