Nella vita di una band capita sovente di trovarsi di fronte a dei bivi fondamentali per il prosieguo del proprio percorso musicale. Situazioni in cui si possono prendere scelte drastiche, nel bene o nel male.

Ai Red Hot Chili Peppers questo è successo più volte durante la loro ormai gloriosa carriera, vissuta spesso a mille all’ora, tra addii, ritorni e cambi di marcia dettati da tante attitudini differenti che si declinavano poi compiutamente nei vari stili che i Nostri sono riusciti, il più delle volte mirabilmente, a mescolare creando quello che venne definito come uno dei più chiari esempi di crossover musicale.

Non vi è dubbio però che sul finire degli ’80, con il gruppo formato da qualche anno e tre album che avevano contribuito a lanciarli nel firmamento rock tra i nomi emergenti più originali e interessanti, i Red Hot fossero alle prese con la prima di queste cosiddette “sliding doors”.

I fatti sono purtroppo noti: il 27 giugno del 1988 il talentuoso chitarrista Hillel Slovak (che con Anthony Kiedis e Flea fondò il gruppo seminale da cui poi, una volta aggiunto il batterista Jack Irons, sarebbero nati i Peppers) venne trovato morto nel suo appartamento a Hollywood, con il decesso giunto due giorni prima in seguito a overdose di eroina, come stabilito dall’autopsia.

La sua tossicodipendenza era conclamata al pari di quella del frontman Anthony Kiedis, nonostante in passato vi fossero stati dei tentativi da parte di entrambi di rimanere il più possibile puliti. All’epoca i quattro erano pronti a mettere mano a nuovi pezzi per quello che doveva risultare un ulteriore passo in avanti della loro carriera, dopo i felici presupposti del primo disco omonimo e soprattutto di “Freaky Styley” e “The Uplift Mofo Party Plan”, ma a quel punto tutto assunse la forma di un grosso punto interrogativo, con lo scioglimento che era diventato ben più di un’ipotesi.

Ognuno reagì al lutto in modo diverso, se per Irons era impensabile allo stato delle cose continuare con la band (sarebbe rientrato in pista solamente anni dopo nella prima formazione dei Pearl Jam) e Kiedis trovò l’unico sollievo buttandosi di nuovo a capofitto proprio in quella stessa droga che aveva ucciso l’amico, Flea di contro pensò che il modo migliore per onorarne la memoria fosse quello di andare avanti continuando a suonare.

Una volta convintosi anche Kiedis, si trattava di trovare dei nuovi validi compagni di viaggio; alla batteria al posto di D.H. Peligro, il quale aveva iniziato il lavoro in studio, fu infine preso il possente Chad Smith, mentre alla sei corde (dopo un breve intermezzo con DeWayne McNight, che già aveva sostituito il chitarrista nei momenti più critici della tossicodipendenza) divenne chiaro che meglio del giovanissimo John Frusciante nessuno avrebbe potuto sostituire Slovak.

Frusciante infatti, oltre a innegabili doti tecniche, era prima di tutto un grande fan dell’ex Peppers, a cui cercava di carpire segreti sul modo di muoversi e suonare lo strumento, e sprigionava, dietro a una proverbiale timidezza di fondo, delle solide certezze in quanto a entusiasmo e voglia di mettersi in gioco.

Peccato che il produttore Micheal Beinhorn (lo stesso dietro “The Uplift Mofo Party Plan”) lo incalzasse affinché irrobustisse i suoi riff, abbinando quindi al “solito” funky delle sfumature più pesanti, al confine con certo metal.

È in effetti “Mother’s Milk” un album piuttosto differente dai suoi predecessori a livello puramente musicale, nonostante alcuni brani sembrino ricalcare il marchio di fabbrica “rap+funky” che tanto li caratterizzava sin dagli inizi (penso ad esempio alla scatenata “Subway to Venus”, alla movimentata “Taste the Pain” o ai ritmi indiavolati che emergono nervosamente in “Nobody Weird Like Me”).

Attenzione: non soltanto si può affermare quanto sopra sulla base di una notevole spinta chitarristica in grado di condurli verso un rock più propriamente detto, ma anche e soprattutto perché è facile individuare, forse per la prima volta, degli squarci melodici che, oltre a rendere il tutto piacevole all’ascolto, riescono ad aprire una porta su nuovi sviluppi che verranno perfezionati da lì a breve, già a partire in pratica dall’album successivo, il celeberrimo “Blood Sugar Sex Magik”, che nel 1991 li proietterà a piedi uniti nel mondo del mainstream, forti di un successo clamoroso.

Dove si avvertono quindi i prodromi di questo (epocale) cambiamento per i Red Hot Chili Peppers? Potrei rispondere citando la placida “Sexy Mexican Maid” o la coinvolgente “Higher Ground”, riuscitissima cover della canzone di Stevie Wonder, ma a mio avviso i pezzi che più segnalano una voglia insita di rinnovamento sono la frenetica (ma orecchiabile al tempo stesso) “Good Time Boys” posta in apertura di scaletta e “Knock Me Down”, toccante dedica all’amico tragicamente scomparso, scelta pure come singolo anticipatore dell’opera.

“Mother’s Milk” non solo, a conti fatti, mostrò una band capace miracolosamente di rimanere in piedi ma diede al contempo un’accelerata verso la sua piena affermazione nell’Olimpo del rock, in un periodo storico di grandissimo fermento creativo, specialmente negli Stati Uniti.

I Red Hot Chili Peppers però non si mischiarono mai a determinati nomi che, con l’entrata nei ’90, avrebbero deflagrato le classifiche di mezzo mondo (mi riferisco ovviamente ai fenomeni “marchiati” dall’egida del grunge) ma vi si affiancarono con pieno merito grazie a una formula certamente particolare e innovativa.

Data di pubblicazione: 16 agosto 1989
Registrato: presso “Ocean Way Studio” e “Image Studios” di Hollywood nel novembre 1988 e marzo 1989
Tracce: 13
Lunghezza: 45:02
Etichetta: EMI
Produttore: Michael Beinhorn

Tracklist:
1. Good Time Boys
2. Higher Ground
3. Subway to Venus
4. Magic Johnson
5. Nobody Weird Like Me
6. Knock Me Down
7. Taste the Pain
8. Stone Cold Bush
9. Fire
10. Pretty Little Ditty
11. Punk Rock Classic
12. Sexy Mexican Maid
13. Johnny, Kick a Hole in the Sky