Altra scommessa vinta da IFB. Se ci mettiamo a fare il conto di tutte le previsioni azzeccate, beh, potremmo davvero definirci dei buoni profeti. Al di là di lodi personali che lasciano il tempo che trovano, quello che vogliamo dire è che non possiamo che essere felicissimi per i Wishy di Kevin Krauter e Nina Pitchkites che tengono fede a tutte le aspettative create dai loro EP: il disco d’esordio “Triple Seven” è una bomba.

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Un tuffo spavaldo e sonico negli anni ’90, tutto sommato senza dimenticare anche l’influenza dei 2000. I Wishy ci portano a scuola d’indie-rock quindi, con una chiara predilezione per lo shoegaze, impreziosito e nobilitato da melodie energetiche e rigogliose, ritmiche piacevolmente ballabili e coinvolgenti, ma anche momenti più frastornanti e carichi. Troveranno pane per i loro denti i fan dei Cocteau Twins così come di Hatchie, andrà in estasi chi vuole lo zucchero e le melodie cristalline del guitar-pop anni ’80 ma anche chi cerca lo shoegaze più sonico o il power-pop rigonfio di fuzz e chi dei ’90 ha sempre ammirato l’aspetto più vigoroso, carico e rabbioso.

Una band che sembra pronta a soddifare un gusto indie da cameretta così come far gridare un palazzetto dello sport gremito di persone: i lati sonori e le emozioni sprigionate dal sound dei Wishy sono tanti e tutti accattivanti e soddisfacenti.

Il fragore iniziale di “Sick Sweet”, stordente e travolgente nel suo incedere abbagliante e sonico, che viene seguita da quella caramellina ballabile che è la title track, che ci fa assaporare dolcezze zuccherose magicamente pop e poi la smithsiana “Persuasion”, con quell’assolo alla Strokes. E la band di Casablancas sembra fare capolino anche nella circolarità di “Busted”. Ma il gioco di rimandi, accenni, suggestioni che poi sono plasmati e filtrati da una personalità solida e traboccante è tutt’altro che finito. “Game” è innegabilmente MBV e mi vedo Kevin Shields che dà la sua santissima benedizione, mentre “Love On The Outside” riprende ancora un giro superbo di chitarra che ci pare arrivare dalla dolcezza dei Sundays per poi piazzare un ritornellone (più assolo) che ci porta ai ’90 più rumorosi, il tutto con una facilità disarmante. Una canzone pazzesca.

“Little While” soddifa la quota dream-pop che sfocia nello shoegaze, con l’arrangiamento più etereo ed evocativo dell’album, mentre “Just Like Sunday” è quello che avrebbe potuto fare Natalie Imbruglia se fosse finita ad avere come produttore il buon Rob Cavallo, overo una ballatona che più nostalgica non si può, accendini altissimi, altro che gli Iphone. “Honey” è potente pop-rock anni ’90 mescolato con spezie shoegaze che rendono il tutto irresistibile. La chiusura con “Spit” è il lato incazzoso, nu-gaze e rabbioso con una specie di taglio emo-grunge.

Ci credete che in mezzo a tutto questo ben di Dio non c’è un ritornello e, ripeto a voce alta, non c’è un ritornello uno che non sia vincente?

Un disco bellissimo, che risveglia la passione per un guitar-rock che guarda al passato ma non sfigura affatto nel presente.