Chi scrive questa recensione è un amante dei film lenti, quelli che tolgono tempo alle parole e danno spazio all’interpretazione dei sentimenti. Eppure, durante la visione del lentissimo “Fremont” – la cui idea è più che apprezzabile – ho provato un po’ di fastidio e persino un po’ di quella noia fantozziana davanti all’ennesima proiezione de “la Corazzata Potëmkin”.
La protagonista Donya (Anaita Wali Zada) è una ragazza afgana fuggita negli USA dopo il ritorno al potere dei Talebani. Adesso lavora in una fabbrica di biscotti della fortuna, il cui proprietario è ovviamente cinese, ma scopriamo che in Afghanistan Donya lavorava come interprete per l’esercito americano. Là ha visto cose brutte e lo dimostra il fatto che non riesce più a dormire: alla
fine ha voluto solamente scappare ed è finita a Fremont in California quasi per caso. Non ama passare tutto il tempo con la comunità afgana e per questo lavora a San Francisco. I motori dell’azione del film sono due: il primo è dato dal rapporto con lo psicologo cui Donya finisce per andare regolarmente, sebbene all’inizio volesse semplicemente lui le prescrivesse dei sonniferi. Il secondo scatto è dato dal cambio di mansione della ragazza, che si trova all’improvviso a dover scrivere le frasi dei biglietti della fortuna. Lei, sempre apparentemente impassibile davanti allo scorrere delle giornate, lascia fuoriuscire tutti i suoi dolori scrivendo un appello su uno dei biglietti, con tanto di proprio numero di telefono. Un “message in a bottle” che le si ritorcerà contro, finendo nelle mani sbagliate, cioè in quelle della moglie del proprietario della fabbrica.
Col senno di poi la sceneggiatura del film è davvero buona: i due autori vogliono trasmettere la sensazione di tempo immobile per chi si è trovato solo in un altro mondo. La malinconia emerge in pieno. Pensate che l’attrice protagonista ha dovuto davvero lasciare l’Afghanistan e il lavoro in TV come giornalista nel 2021. Così come traspare un certo ottimismo realista: la fiducia in un futuro migliore, ma sussurrata e vissuta senza slanci espansivi. Forse rivedendo “Fremont” lo apprezzerei di più, ma quando andiamo al cinema di solito non vediamo in sala il film due volte e lì le prime impressioni contano.
Innanzitutto, mi viene da fare il paragone con due pellicole simili per lentezza, “Lost in Translation” (2003) e “Perfect Days” (2023). Nel primo è la comicità di Bill Murray a smuovere le acque, nel secondo la perfetta costruzione ossessiva e ripetitiva di Wim Wenders, nonché i dialoghi sparuti ma potenti. Per entrambi vale anche il finale aperto. In “Fremont” non si muove nulla, meno che mai l’espressione del viso di Donya, sebbene lei curi via via sempre di più il proprio aspetto, come a sottolineare una lenta evoluzione ed uscita dall’isolamento. I turning point dati dalla vendetta della moglie del proprietario della ditta di biscotti e dall’incontro della ragazza con meccanico non sono dirompenti ma anch’essi lenti come tutto il film, e – anche dovessero cambiare le cose – lo faranno senza rumore, senza sussulti.Poi ci sono gli elementi che mi hanno dato davvero molto fastidio. Non avevo mai visto un film in cui all’inizio si presentano il regista, Jalali e la co-sceneggiatrice italiana, Carolina Cavalli, a dire chi
sono ed augurarsi che la visione piaccia a chi è venuto in sala. Ma cos’è? Una televendita? Un atto di captatio benevolentiae che non mi è proprio piaciuto.
Così come non mi sono piaciuti l’uso del formato 4:3 e del bianco e nero. E basta! Posso capire che il formato stretto avesse una motivazione in “The Whale”, al fine di favorire la massima immedesimazione col protagonista e dove la scena era unicamente il suo piccolo appartamento, ma perché nel 2024 devo vedere un film come se fossimo ancora nel ventesimo secolo? Tanto più
che la storia è ambientata ai giorni nostri e di malinconia ne esce comunque a pacchi dallo schermo, anche senza questi escamotage.
Infine, i dialoghi: un buon 50% del film è in lingua originale, dari e cantonese, con i sottotitoli (fortunatamente non in cecoslovacco). Per metà tempo ho dovuto leggere in basso anziché guardare le scene. Ok, ho capito come anche questo strumento contribuisca ad evidenziare l’isolamento della comunità di immigrati rispetto agli americani, ma a questo punto tanto valeva tradurre tutto oppure tenere l’intero girato in lingua originale, inglese compreso.
Insomma, un film che mi ha lasciato scisso. Ho scritto di ciò che è apprezzabile del lungometraggio, ed è molto, davvero, ma sono comunque uscito dalla visione di “Fremont” con la sensazione di un “Perfect Days” fatto dal mio falegname. Sbaglio? Non so: cercherò di dare una seconda chance all’opera di Jajali quando uscirà sulle piattaforme, possibilmente evitando il divano e l’ora tarda.