Era il 1994 quando i Portishead di Beth Gibbons e Geoff Barrow, cantante nei pub la prima e musicista di professione (collaborazioni con Tricky e Massive Attack, gli altri due mostri sacri di Bristol) il secondo, escono con il primo album “Dummy”, con il supporto del terzo componente, il chitarrista Adrian Utley, fine appassionato e cultore di colonne sonore e di sua maestà Ennio Morricone.
E sarà subito successo, perchè “Dummy” è un capolavoro oggettivo per la sua facilità di arrivare anche alle orecchie non abituate al genere; che poi trovare un “genere” sarebbe di par suo pure difficile, e gli verrà quindi cucito a puntino addosso: ossia (il poi tanto masticato) trip-hop.
Racchiudere il suono in un’etichetta di fronte a questo lavoro è però davvero, davvero riduttivo. E per quanto possa essere riduttivo a propria volta, l’approccio track by track di “Dummy” risulta quasi un dovere etico: perchè siamo di fronte ad un viaggio, quasi un’ora di esplorazione, da vivere senza soluzione di continuità .
Già infatti l’inizio di “Mysterions” ci apre le porte per un’avventura unica e fuori dal tempo: la punta del grammofono che graffia il vinile, lo scratch, le sonorità spettrali, la voce soave quindi struggente di Beth, le tastiere e i synth a creare pareti sonore ovattate, passando tra cunicoli bui ed alieni, a passo cadenzato, quasi intimoriti, spiazzati. Siamo già di fronte ad un singolo che potrebbe far da corollario a non so quanti spot, quanti film, quante istantanee.
La successiva “Sour Times” non fa che aggiungere ulteriore eleganza, quei riflessi di smeraldo jazz e zaffiro blues suggestivi e conturbanti che la rendono di una bellezza rara, agrodolce, ultraterrena, dove Beth invece è lì a tenerci legati col suo canto a reticolati fatti di sentimenti umani, inermi, indifesi. Autentici.
Se poi arriva un pezzo come “Strangers” a disorientarci tra graffi sonori, momenti super futuristici alternati a pulsioni quasi carosellistiche, l’ipnosi e la trance toccano livelli d’allerta difficilmente raggiungibili; serve quindi una “It Could Be Sweet” a riportarci più “vicini” al pianeta Terra, con la voce di Beth che, malinconica quanto dolce, ci fa rifiatare narcotica tra il lounge ed il chillout, per riattivare quindi il livello di allarme ed inquietudine con le trame scure e più angoscianti di “Wandering Star” rotte a loro volta da sonorità dub, quasi western, dagli scretch, gli echi e i rumori disturbanti da spazi ultraterreni.
“It’s a Fire”, a seguire, è un esercizio di stile e bravura di Beth Gibbons accompagnata da un basso da retrovia, percussioni e tasti dell’organo Hammond, ma è delicata quanto illusoria: “Numb” ci riporta su valori assoluti di grazia, maestria, eclettismo seppur improntata su un minimalismo stilistico estremo e spezzato soltanto da guizzi di cantato e maneggi sul vinile;è solo il preludio al climax, che risponde al nome di “Roads”: un capolavoro assoluto, manifesto del genere e dalla ricchezza sibaritica ed immarcescibile, perfetto sposalizio tra suoni languidi, romantici ed orchestrali e il cantato che qua tocca vette immaginifiche: soul, passionale, apparentemente indifeso ed invece cuore pulsante di tutta la solennità che gli gravita attorno. Un pezzo nato per essere colonna sonora, da scena madre di un film, per il quale altre parole davvero non servono.
“Pedestal” e “Biscuit” disegnano i vicoli bagnati dall’umidità e percorsi dal fumo e della nebbia di Bristol, con ancora graffi di scratch dove l’adornamento jazzy della prima e i ritmi sincopati e sfuggenti, tra mantelli di tastiera, le ferrose percussioni e i sampler della seconda provano come a depistare dall’imminente grand finale che è “Glory Box”: la chitarra distorta e rabbiosa crea un vortice intorno al lamento angelico ed onirico di Beth, mentre le linee di basso dilatano gli spazi ed incantano, seducono, magnetizzano.
Game-set-match: vintage, cinematico, sensuale, seducente, pura memorabilia, “Dummy” è un capolavoro assoluto, un manifesto, un ricettario di magia dalla ricchezza magniloquente, un passaggio che non potrà conoscere tempo nè età e che va dritto nell’Olimpo della musica indipendente alla voce pietra miliare.
L’album vincerà un Mercury Prize, arriverà al secondo posto delle UK Charts (dietro solo ai Wet, Wet, Wet), sarà doppio disco di platino in patria, venderà oltre un milione di copie negli Stati Uniti ed ad oggi enumera vendite mondiali superiori ai tre milioni e mezzo di unità .
Un disco che è come nato per essere inciso in vinile: un vinile che per un collezionista far mancare nella propria raccolta sarebbe un peccato capitale imperdonabile.
Data di pubblicazione: 22 Agosto 1994
Tracce: 11
Lunghezza: 49:17
Etichetta: Go! Beat
Produttore: Portishead
Tracklist:
1. Mysterons
2. Sour Times
3. Strangers
4. It Could Be Sweet
5. Wandering Star
6 .It’s a Fire
7. Numb
8. Roads
9. Pedestal
10. Biscuit
11. Glory Box