Il 23 agosto di 30 anni fa usciva “Grace” di Jeff Buckley, un pilastro d’oro della discografia rock degli anni ’90.

L’unico studio album del cantautore riscontró uno scarso successo all’epoca e fu vittima di critiche confusionarie. Il vero successo per “Grace”, così come per Buckley, arrivó postumo. Contando più di due milioni di copie vendute, il disco è stato osannato da critici ed ascoltatori di tutto il mondo ed è stato votato come uno dei 500 migliori album esistenti da Rolling Stone, nel 2003. Raccontare chi sia stato Buckley e cosa abbia significato “Grace” per la storia musicale non è cosa semplice. Francamente non credo nemmeno che sia lo scopo di quest’articolo. No, il viaggio che voglio affrontare è quello di una scoperta, o per meglio dire di una riscoperta della vocalità  unica e pregiatissima di Buckley e dei brani di quello che Bowie definà­ come “uno dei dieci album da portare con sè su un’isola deserta“.

è “Mojo Pin”, dunque, ad aprire il sipario, ed è Buckley che, scostando le tende di velluto con larghi sussurri, ci trasporta in un sogno che parte candido ed inoffensivo e, pian piano, a colpi sempre più insistenti di chitarra e batteria, diviene vorticoso e quasi ostile. La canzone, scritta dal cantante e da Gary Lucas, appare per la prima volta all’interno dell’EP capolavoro “Live at Sin-è”. Un tuffo in delle acque scure, ma all’apparenza calme, il brano d’apertura di “Grace” si rivela inatteso e quasi magico, come quello spasmo che, di notte, ci prende mentre sognamo di cadere giù.

“Grace” è, probabilmente, uno degli esempi più lampanti della genialità  interpretativa e dell’estensione vocale dell’artista. Il brano dell’omonimo album è un inno d’amore  all’imprevedibilità  della vita ed alla caducità  che filtra, prima o poi, nelle crepe di tutte le cose. Buckley sa che l’instabilità  è alla base di tuttp ció che è umano. La vita non è eterna ed è per questo che, senza tensioni o drammi, esorta placidamente l’amata, cantandole “Oh drink a bit of wine we both might go tomorrow / Oh my love“. Precursore del suo tempo, o forse araldo di epoche remote, Buckley canta l’amore e l’incertezza come nessun altro. Scelta, non a caso, come title track del disco, “Grace”, la grazia, era la qualità  fondamentale prediletta da Buckley. In un estratto di “Amazing Grace: Jeff Buckley”, documentario del 2004, il cantante definisce il concetto di grazia come: “quel che conta in ogni cosa – specialmente nella vita, nella crescita, nella tragedia, nel dolore, nell’amore e nella morte. è una qualità  che ammiro immensamente.  è ció che t’impedisce di distruggere le cose troppo stupidamente. In un certo senso è ció che ti mantiene in vita“.

Segue “Last Goodbye”, il cui titolo originale, “Unforgiven”, venne messo da parte dall’artista in seguito a svariate metamorfosi della canzone. Il brano, dal testo teatrale e lancinante, ci fulmina e ci piega  in una morsa al contempo appassionata e disperata. è, ancora una volta, la voce di Buckley a muovere tutte le corde con un’accuratezza strabiliante. Nulla è lasciato al caso e l’arrangiamento si sposa perfettamente al falsetto stregato dell’artista. Una canzone che mi ha guarito un cuore spezzato e che ricorderò sempre come la colonna sonora di un ultimo addio. Il “Last Goodbye” di un amore che, ironicamente, non avrei mai creduto potesse partire così lontano.

“Lilac Wine”, alla base una canzone scritta da James Shelton e ripresa da Nina Simone nell’album “Wild Is The Wind” (1966), viene inserita da Buckley nell’album di debutto, avvolta in delle vesti nuove e profumate. Grande fan di Simone, l’artista confessa, all’epoca, che l’unica versione che conta del brano è, in effetti, proprio quella della cantante. Perchè cimentarsi in una tale impresa allora? Per omaggiare Simone? Per il gusto di una sfida personale presa troppo a cuore? Probabilmente le ragioni c’erano e di sicuro non erano così semplici. Buckley pareva avesse un intuito particolare per l’appropriatezza dei brani scelti per la propria voce e “Lilac Wine” ne è, quasi sicuramente, la prova emblematica.

“So Real” fu il terzo singolo estratto da “Grace” nel 1994 e prese il posto che originariamente apparteneva a “Forget Her”. Il brano, dal riff indimenticabile che dobbiamo a Michael Tighe, spinge Buckley sull’orlo del precipizio. La voce del cantante, di conseguenza, fila lungo le curve e si spinge verso il baratro mantenendo, però, sempre lo spirito ancorato al suolo.

L’ultra celebrata “Hallelujah”, cover del brano scritto da Leonard Choen, è, di sicuro una gemma rara e luminosa. La canzone che ha reso Buckley mondialmente famoso è un’amalgama perfetta di esecuzione sonora, sussurri estatici e rivisitazione di contenuti pseudodivini. L’esecuzione solista di Buckley, una resa perfetta di chitarra e voce, resta, innegabilmente, una delle punte di diamante di “Grace”. Lo spartiacque perfetto dei brani che costellano l’album ed una vera e propria consacrazione del talento musicale di un divo sbocciato solo a pena.

“Lover You Should’ve Come Over” è, a mio avviso, la punta di diamante assoluta di “Grace”. Una canzone i cui versi possono essere equiparati ad alcuni poemi scuri e decadenti di Rimbaud o Baudelaire. La melodia che evoca dei panorami plumbei, all’inizio del brano, si scioglie man mano e ci porta malinconicamente a passeggio sotto la pioggia. Ci fa attraversare tutto il dolore del mondo per un amore perduto e ci chiede infinitamente perdono. Se dovessi scegliere la mia canzone preferita di Buckley sceglierei questa senza alcuna esitazione.  “Lover You Should’ve Come Over” racconta una tragedia terribile che tutta l’umanità  condivide segretamente e lo fa in un modo bellissimo.  è una canzone che significa tanto per me.  è il sottofondo musicale che mi ha cullato e che ha dato un nome all’assenza improvvisa della persona che, più di tutte, mi ha insegnato l’amore e l’importanza delle parole.

“Corpus Christi Carol” è la terza cover dell’album, questa volta dell’artista Benjamin Britten. Il brano racconta la storia di un falco che porta l’amata del cantante in un frutteto. Il cantante va a cercarla e la trova di fianco al corpo di un cavaliere sanguinante e ad una tomba contenente il corpo di Cristo. A metà  tra la fiaba e l’inno sacro, “Corpus Christi Carol” è il brano da ascoltare quando si ha voglia di avvicinarsi al proprio lato spirituale, ma senza indirizzare le proprie energie e la propria fede in una direzione particolare.

“Eternal Life”, penultimo brano dell’album, è, a modo suo, la canzone che si dimostrò più al passo coi tempi. In un’epoca immersa fino al collo nel grunge, “Eternal Life” si scopre fomentata dallo stesso tipo di rabbia sotterranea. Una collera che ha, peró, un background politico ben preciso, come dichiarato da Buckley stesso: “Eternal Life è stata ispirata dalla rabbia procata dall’uomo che sparó a Martin Luther King, dalla seconda guerra mondiale, dai massacri in Guyana e dagli omicidi di Manson“. Il cantante rincara la dose e porta il discorso su un piano quotidiano e sempre attuale, affermando che ” (Eternal Life)  è una canzone arrabbiata. La vita è troppo breve  e troppo complicata ed è inconcepibile che la gente che sta dietro ad una scrivania o dietro ad una maschera possa rovinare la vita ad altri esseri umani imponendo la forza sulla base di una differenza di reddito, di colore, di classe, di religione o di chissà  cos’altro…”.

“Dream Brother” è la decima ed ultima canzone che chiude il cerchio perfetto di “Grace”. Scritta da Buckley, Mick Grøndahl e Matt Johnson, la canzone dovrebbe essere un monito sognante, una specie di parabola o messaggio di avvertimento per un amico che si sta mettendo nei guai. Una melodia blu, incantata e criptica, che Buckley usa, in realtà , per far passare un messaggio forse più a sè stesso che all’amico. La verità  è che questa canzone, quasi ironicamente, da questo giorno in poi sarà  per me un’altra memoria completamente inaspettata. Le sorprese con “Grace” non finiscono mai, ci sono sempre nuovi tasselli da incorporare.

Non resta molto da aggiungere, ad ognuno il suo album di ricordi da sfogliare. Per me”Grace” resterà  il disco fondamentale al quale ritorneró sempre. Happy birthday Your Grace!

Jeff Buckley ““ Grace
Data di pubblicazione:  23 agosto 1994
Tracce:  10
Lunghezza: 51:43
Etichetta: Columbia
Produttore: Jeff Buckley, Andy Wallace

Tracklist:
1. Mojo Pin
2. Grace
3. Last Goodbye
4. Lilac Wine
5. So Real
6 .Halleluja
7. Lover, You Should’ve Come Over
8. Corpus Christi Carol
9. Eternal Life
10. Dream Brother