Quarto album per gli irlandesi Fontaines D.C., ormai beniamini della scena indie britannica, dopo la fulminante stilettata di “Dogrel” (2019), il più pensoso “A Hero’s Death” (2020) e le trame cupe e suadenti di “Skinty Fia” (2022), tutti ben accolti e in costante evoluzione stilistica. Degno di nota anche l’esordio solista del frontman Grian Chatten, (“Chaos for the Fly“, 2023), che si è scrollato di dosso la maschera punk per rivelarsi un cantautore di prim’ordine.

Credit: Simon Wheatley

“Romance”, che fin dai singoli promozionali prometteva un ulteriore strappo dal post-punk degli esordi dirigendosi verso una forma più diversificata di rock alternativo, è stato accolto calorosamente dalla critica che conta (NME, Guardian e Rolling Stone gli hanno dato il massimo dei voti), che ne ha lodato la densità dei testi e la versatilità stilistica. E di carne al fuoco ce n’è effettivamente molta.

Un filo rosso si riallaccia alle oscure atmosfere di “Skinty Fia” nell’intro della title track, reminiscente della crepuscolare fase post-Violator dei Depeche Mode nei primi anni ’90, una fascinazione ‘nineties’ portata alle estreme conseguenze dal singolo “Starbuster”, commistione di alt-rock danzereccio e fratture rap, non lontana dai territori “acidi” del periodo, dal baggy al big-beat. “Here’s the Thing” è un power-pop sghembo che avrebbe la benedizione degli Weezer.

Ma il trittico di partenza non è pienamente indicativo della rotta impressa nella parte centrale, che definisce con molta più modestia il baricentro che gli irlandesi vogliono dare alla propria musica: un pop-rock di classicissimo stampo britannico, baloccandosi con tutti i ninnoli e i canoni stilistici d’oltremanica, una traiettoria ventennale che va dagli Smiths agli Oasis agli Arctic Monkeys, il tutto spruzzato con qualche capriccio corale da arena rock.

È soffice ma sofferto il climax di “Desire”, con insistito muro chitarristico che ricorda la “Yellow” dei Coldplay, la versione orchestrale del loro shoegaze; della stessa schiatta e ancor più trasognante è “Sundowner”, uno dei vertici emotivi, tra dub e dream-pop, che chiude una cinquina da applausi, dove scorrono rapide e godibili “Bug”, il vibrante crescendo di “Motorcycle Boy”, con echi di Smashing Pumpkins, e la pomposa ballatona “In the Modern World”, con tanto di archi, pause e controcanti.

Ma la vera trovata dell’album, nonché uno dei picchi di carriera, è la conclusiva “Favourite”, che chiude il cerchio partito dalla cadaverica ouverture con uno splendente e cristallino jangle-pop, forse l’avvisaglia di un nuovo cammino: svanita ogni sfumatura punk e post-punk, nella migliore delle ipotesi qui è possibile disquisire di un “neo-Britpop” eclettico e maturo, baciato da un eccellente lirismo d’autore; nella peggiore, di una nostalgica retrospettiva della ‘Cool Britannia’ che fu, oscillante fra lampi di genio e cliché.

La fortuna dei Fontaines D.C. è che hanno talmente tanta classe da potersi permettere anche sperimentazioni fuori fuoco senza il rischio di scendere sotto media. Ma resta un equivoco di fondo, e dopo quattro album, tutti buoni, agli irlandesi manca ancora “il” disco, l’opera che possa far gridare al capolavoro e definisca il decennio. Parimenti, manca anche la hit, il tormentone che lasci una traccia duratura nella testa e nella memoria dei tanti fan che – e qui non abbiamo dubbi – continueranno a crescere anche dopo questo “Romance”.