“Wild God”. Un dio selvaggio, brutale, ferino, incontrollabile. O è incontrollabile questa esplosione di “fede”, non in senso propriamente religioso. Il “dio” al quale si rivolge Nick Cave è una sorta di cat/nalizzatore di energia primigenia, un purificatore senza volto e senza chiesa che è riflesso delle emozioni più intime e autentiche non solo dell’essere umano che è l’artista (o gli artisti) in questione, ma anche l’umano in senso più ampio. Dio, il metafisico, l’insondabile, diremmo lo Spirito (santo o no che sia) che incontra l’umano nel suo canto di liberazione dalla morte o dal dolore. O meglio nella scesa a patti con essi, in nome dell’amore, e quindi dell’amore per la poesia, per la bellezza. Una bellezza che finalmente appaga e riunisce. Insomma una fantastica utopia tematica, sulle ali di una musicalità che vuole lasciare le lande del buio per incontrare un firmamento di riappacificazione. Si consuma così un rituale tra il sacro e il profano, ma non nel senso della perdizione, del peccato, dell’oscurità. In un crescendo di tensioni e rilasci, con un suono che mescola grandiosità orchestrale a momenti di intima fragilità, il vecchio, nuovo Nick Cave e i ritrovati Bad Seeds cantano la propria età dell’acquario, dopo alcune tempeste personali che avrebbero scosso anche i cuori più duri e monolitici.

Credit: Ian Allen

Assieme al compagno fraterno Warren Ellis ritroviamo quindi i vecchi sodali Thomas Wydler, Jim Sclavunos e Martyn Casey. Ma vediamo anche l’ingresso di nuove figure: Colin Greenwood, il noto bassista dei Radiohead, e Luis Almau, che apporta un tocco distintivo con chitarre classiche e acustiche. A completare l’ensemble, i cori del Double R Collective, diretti da Wendi Rose, che aggiungono una certa avvolgente densità, capace di amplificare ulteriormente l’innegabile ricchezza sonora del progetto.

L’apertura con “Song Of The Lake” ci introduce a un protagonista stanco e disilluso, ma anche capace di trovare bellezza nel – pardon – oltre il dolore. Non è inebetirsi, non è illudersi, è passare attraverso, e quindi passare dentro il dolore, e tornare a riveder le stelle, uguali a prima, aggrappati alla nostra identità e alle nostre radici, ma, allo stesso tempo, profondamente trasformati, convertiti, ma non nel senso di un plagio religioso.

Ecco quindi “Conversion”, nei cui versi intravediamo la sagoma di un vecchio nume che quasi sembra rinascere grazie all’incontro con una figura femminile, una musa tra fiamme mistiche e sfumati paesaggi ancestrali.

Abbiamo così momenti di oscura introspezione che sbocciano come virgulti notturni in cerca di una sorta di gotica gioiosità, come dimostra – il titolo è più banale della canzone che rappresenta – “Joy”, una delle tracce più luminose del disco, dove il dolore viene scarnificato fino al suo midollo, tra e pennellate di tenui distorsioni, rasserenanti fiati, lacrimevoli stille di piano e un coro gospel che squarcia un cielo nero inseguendo una luce estatica di redenzione. Non è la “gioia” che porta allegria e spensieratezza, ma è la gioia che sprigiona da una primavera nuova dopo un inverno tagliente come una lama. Più che “gioia” si dovrebbe parlare di amore purissimo, un amore non passionale, ma liberatorio, puro, trascendente e trascendentale. L’amore di un padre (o di una madre) per i propri figli (perduti?)

I singoli che avevano anticipato l’uscita del disco non sono tra gli episodi più interessanti di questo nuova collezione di brani. “Wild God”, “Frogs” e la spossata, suadente “Long Dark Night” sono sì avvolgenti ed eleganti, ma sono altri probabilmente i brani che rivelano la vera anima del progetto.

“Final Rescue Attempt” si libra tra fumosi ghirigori strumentali con una spinta verticale che mozza il fiato, severa e marziale, e insieme leggera, come una piuma bianchissima su un lago ghiacciato.

In “Cinnamon Horses”, il gruppo si avventura in territori al crocevia tra psichedelia e epicità quasi medievaleggiante, da una parte alla ricerca di forze naturali primigenie oltre l’umano, e dall’altra indagando proprio la fragilità ineluttabile dei legami umani, mentre la dolcezza amorosa “O Wow O Wow (How Wonderful She Is)” fa da zuccherosa anticamera alla incantevole chiusura costituita da “As The Waters Cover The Sea”, sorta di super-avvolgente inno che sembra proprio togliere l’ultimo peso da un cuore oppresso per troppo tempo, con quella coda gospel che scioglierebbe anche il ghiacciaio più impenetrabile

“Wild God” probabilmente non reca le stimmate infuocate dei tre precedenti lavori del Re Inchiostro e sembra fermarsi sempre a un passo da una epicità quasi retorica, eppure, ascolto dopo ascolto, la sua bellezza si rivelerà pian piano, conquistando ogni volta un pezzetto nuovo del vostro cuore.

Because love asks for nothing/
but love costs everything