È un album che cade addosso con la forza di un macigno “American Standard”, quinta fatica in studio a firma Uniform. A quattro anni di distanza dal precedente “Shame”, e dopo aver accumulato un bagaglio di esperienze importanti grazie alle fruttuose collaborazioni con The Body e Boris, la band newyorchese ritorna in maniera prorompente sulle scene con un’opera a dir poco maestosa, che trasuda possanza e serietà da ogni singolo poro.

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I toni ultra-drammatici del disco servono a mettere in evidenza i temi importanti trattati da Michael Berdan e Ben Greenberg che, per l’occasione, si sono fatti aiutare dagli scrittori Maggie Siebert e B.R. Yeager per dar vita a testi di grande impatto. “American Standard” ha infatti la consistenza di un concept album o, per dirla ancor meglio, la complessità di un’opera letteraria che esplora temi difficili e dolorosi come quelli dei disturbi alimentari e del disprezzo per sé stessi. Per usare le parole impiegate dai diretti interessati, l’album è un ritratto della malattia mentale e fisica vividamente terrificante come nessun altro nel canone odierno.

Inutile dirvi che un ascolto di questo tipo è tutto fuorché una passeggiata di salute. Il miscuglio di noise, industrial, post-punk e post-metal modellato dagli Uniform scivola nelle orecchie come lava bollente. Eppure, nonostante il massacro sonoro, si finisce col lasciarsi trasportare da questo originalissimo delirio elettrico che parte nella maniera più pesante possibile, ovvero con i 21 minuti di una title track che, implacabile come un carro armato ma leggiadra come una libellula, inizia con un coro di urla disperate (A part of me, but it can’t be me. Oh God, it can’t…vi resterà in testa) per poi lentamente trasformarsi in un prodigioso esempio di sludge catartico, psichedelico, ipnotico e ossessivo, che alterna momenti di fragorosa estasi a squarci di cupissima lentezza dai toni doom. Un interminabile, screziato crescendo dominato da emozioni e impulsi incontrollabili.

I due batteristi Michael Blume e Mike Sharp, coadiuvati dal bassista Brad Truax (collaboratore di lunga data degli Interpol), danno vita a una sezione ritmica semplicemente devastante che si prende tutta la scena nella furia viscerale e primitiva di “This Is Not A Prayer”, un ottimo esempio di post-hardcore sperimentale che scorre via tra brutali rasoiate di chitarra elettrica e tamburi tribali. Sembra seguire più o meno la stessa traiettoria la breve “Permanent Embrace”, un vero e proprio pugno allo stomaco che flirta col black metal citando i Killing Joke. Più tradizionale ma non meno cattiva è “Clemency”, una traccia super-heavy incredibilmente coinvolgente che, nelle atmosfere oscure e mefitiche, ricorda l’industrial metal dei maestri Godflesh.

Agli Uniform bastano appena quattro pezzi per dar forma a uno degli album metal più interessanti e coraggiosi dell’anno. “American Standard” è un viaggio profondo e faticoso negli angoli bui della psiche umana: vi basteranno un pizzico di pazienza, un fiume di curiosità e un carico pesante di amore per la musica meno accomodante e digeribile per apprezzare in toto un disco tanto affascinante quanto caotico, claustrofobico e infernale.