Chiacchieratissimo progetto di casa Domino, che, dal basso, lo sta lanciando nel girone delle next big things.
Presenti, quest’estate estate, in tutti i festival del vecchio continente, nonostante fosse stata distribuita solo una manciata di brani, scelta che vara una sorta di rodaggio, alimentando le aspettative per il debutto sulla lunga distanza, per poi andare a raccogliere, quanto accomodarsi in un posto ai piani alti.
Premessa doverosa per chi fin dai primi singoli attira su di se, a torto o ragione, attenzione a 360 gradi.
Io, personalmente, incuriosito da questo assopito hype, ma pur sempre tale, ho ascoltato, in questi mesi della stagione bella, i brani disponibili a ripetizione, senza trovare granché in abito aurorale, che forse non deve essere la loro strada, anzi, però quel piglio per diventare un qualcosa da ascolto ossessivo, avrei dovuto trovarlo, e invece nulla.
Sicuramente l’irruenza punk o meglio post punk, condita da una produzione elettro ha fatto il suo dovere, ma nel setaccio, a mio modesto parere, rimane poco se parliamo di canzoni.
Diciamo che i ripetuti ascolti non hanno lasciato quella percezione da cosa imperdibile, peculiarità, senza fare nomi, che trovo spesso all’interno della nuova scena post punk, che sta regalando, si, enormi soddisfazioni, per non dire giganti se paragonate al momento storico, ma che porta alla ribalta anche proposte più da “carro del vincitore” che di reale sostanza.
Che i Fat Dog, sebbene non siano prettamente catalogabili alla succitata scena, possano essere assimilati a quest’ultima riflessione, non lo so, e non sono certo io a poterlo dire, anche se lascio la finestra aperta. Parliamo comunque di un collettivo esordiente con tutte le attenuanti del caso.
Venendo al disco, “Woof.”, oltre alla “singolosa” “Running” che regala un misto elettro tra note smussate ed energia fastidiosa, c’è l’altro biglietto da visita “I am the King”, brano agli antipodi, quasi una loro personale visione del concetto di ballad che fa da contraltare all’interessante “Clowns” sempre nel girone delle canzoni più introspettive, più ficcante “King of the slugs”, declamato inno dance, pulsante e claustrofobico, mentre “WIther” prelude ad un caos annunciato nella versione live.
Confermo che la produzione risulti l’asso nella manica, sicuramente quella peculiarità che ha conquistato chi ne sta parlando, con lodi, da mesi.
Ovviamente anche se non hanno convinto appieno il sottoscritto, stanno facendo un percorso inattaccabile, partendo dalle piccole venue del continente, portando lo spirito underground in ogni dove. Quindi va sicuramente bene così, per ora.