Il titolo “Embers”, ovvero “Braci”, è quanto mai azzeccato. Siamo di fronte a un fuoco lento ma potente, che tinge la notte di rosso, alimentato sempre con attenzione e maestria.
Mai brusco o approssimativo, sempre omogeneo, rotondo e spontaneo. Mai un momento forzato, mai un suono meno che perfetto.
I God Is An Astronaut sono: Torsten Kinsella a chitarra, piano e synth. Niels Kinsella al basso. Lloyd Hanney alla batteria. In questo disco i tre si avvalgono del sontuoso apporto di Jo Quail al violoncello e di Dara O’Brien, al sitar, altri strumenti a corda e particolari percussioni (shamanic drum, bowed psaltery, chimes, tanpura).
Questo lavoro trova buona parte della sua bellezza stordente proprio grazie ai contributi di Dara O’Brien e Jo Quail.
Davvero un album molto, molto ispirato. Un disco dentro cui perdersi, attraversato da una potenza oscura ma allo stesso tempo pacifica.
L’album è composto da nove, magnifiche, tracce e siamo ad un livello che si avvicina pericolosamente alla definizione di “Capolavoro”.
Il primo brano, “Apparition” scopre subito le carte. Un intro suggestiva che scatena subito temi orientali alternati a rasoiate post-rock. In “Falling Leaves” il sitar crea una stupenda atmosfera autunnale, rafforzata da chitarra, basso e batteria che rimandano nei momenti più evocativi ai Galaxy 500. Nella seconda parte s’inseguono anche brevi cavalcate più hard. “Odissey” è costruita su arpeggi stranianti che seducono, rapiscono e trascinano. Il suono cresce e si fa a tratti irresistibile. Passiamo a “Heart Of Roots”, un maestoso pezzo post-rock che a metà si addolcisce e si fa riflessivo e nostalgico, per poi riprendere nel suo incidere ipnotico. La fantastica title track, “Embers”, è la summa di tutta la poetica del disco e fa in qualche modo da spartiacque. Dopo “Embers” i suoni, infatti, si fanno più dolci e distesi, complice il violoncello di Jo Quail. “Realms” è un pezzo disteso, pacifico e commovente. “Oscillation” dà ancora qualche scossa e ricorda, come tutti i passaggi più potenti di questo disco, alcune cose dei Mogwai. Per finire abbiamo la magica “Prism”, con il suo incedere magnetico e vagamente inquietante e la stupenda “Hourglass” che ci accompagna definitivamente verso lidi incontaminati e malinconici. Una vera meraviglia.
Per tutto il disco si rincorrono arpeggi e melodie di sitar, piano, violoncello e poi scariche di chitarra, basso e batteria, progressioni, cavalcate e poi ancora arpeggi ipnotici e sognanti. Raramente mi è capitato di apprezzare così tanto un lavoro senza cantato. Questo è un album da ascoltare e riascoltare e tenere dentro di sé. Perché? Se sapessi spiegare solo a parole quanto è bello non ci sarebbe bisogno di ascoltarlo. E sarebbe un peccato mortale.