Scrivere di musica non è un compito semplice. Mai. E non solo per ciò che asseriva quel genio indiscusso di Frank Zappa. Bisogna fare i conti con la sacra oggettività – prima regola di un recensore – e con i propri gusti personali, provando a miscelare bene entrambe le cose senza incappare in scivolosissime bucce di banana.
Chi scrive, per esempio, ha ammirato fortemente i The The di Mr. Matt Johnson. Per una mera questione musicale, certo, ma anche e soprattutto per quell’aura di riservatezza (tipica degli Artisti veri) che ha sempre accompagnato il musicista inglese lungo il suo percorso. “Infected”, pubblicato nell’anno di grazia 1986, è un disco senza tempo, uno di quei (capo)lavori che riescono a spezzare – con estrema facilità – la tirannia patetica dell’usa & getta, trasportando l’ascoltatore in un mondo dove si è asserviti solo ed esclusivamente alla divina creatività.
Ecco perché a distanza di quasi ventiquattro anni, il ritorno del gruppo-non gruppo britannico ha suscitato così tanta attesa e curiosità tra pubblico e addetti ai lavori. Sgomberiamo subito il campo da elucubrazioni di sorta: “Ensoulment” è oggettivamente un album con i controfiocchi, nonché l’ottimo ritorno sulle scene discografiche del progetto capitanato dal caro vecchio Matt. L’antifona, del resto, la si era già intuita con l’ottimo primo singolo, “Cognitive Dissident”, un brano dannatamente evocativo che ha riposizionato i Nostri sulla mappa della musica mondiale. Il ritornello di “Life After Life”, invece, rappresenta uno dei marchi di fabbrica dei The The, grazie a quel crescendo che si appiccica nella testa come un filo ad un aquilone.
E cosa dire di “Zen & The Art Of Dating” se non che ci troviamo al cospetto di uno dei momenti più alti di questo “Ensoulment”? Amore, sesso, morte. Il sacro triumvirato della vita. Forse. E del disco in questione. Senza dubbio alcuno. Va da sé, naturalmente, che per assaporare ancor di più la linfa dorata dei tredici brani che vanno a comporre la tracklist dell’album, vi sia bisogno di ripetuti ascolti e di un paio di cuffie all’altezza della situazione.
Provando a tirare un po’ le somme, dunque, “A Rainy Day In May”, va a concludere in maniera piuttosto regale un’opera pregiatissima e che riconsegna al regno delle sette note una delle band più iconiche di sempre. A quasi quarant’anni di distanza (quell’86 di cui sopra), Matt Johnson ci è riuscito di nuovo. Ha infettato il mondo di poesia e bellezza.