Nella storia della musica si possono riscontrare degli esordi che rappresentano delle vere e proprie epifanie, con bagliori di luce accecante al proprio passaggio, sin dal fatidico primo ascolto.

Spesso poi quegli stessi episodi diventano così preponderanti da definire il destino dell’artista in questione, quasi rischiando di farlo rimanere intrappolato in mezzo a tanta bellezza, magari non più replicabile.

Non so dire con certezza se l’assunto possa valere anche per Lenny Kravitz, che si apprestava ad esordire discograficamente il 19 settembre di trentacinque anni fa, fatto sta che “Let Love Rule” riuscì a rapirmi a partire dalle prime note della sua traccia iniziale, la suadente “Sittin’ on Top of the World”, per poi continuare a stupirmi e deliziarmi di volta in volta con la splendida title-track, ricca di buone vibrazioni soul e rock e le altre canzoni, tutte in possesso di un aura di fascino e vigore dal sapore quasi tangibile, percettibile ad ogni sussulto del Nostro.

Lenny si presentava al mondo in questo modo, da venticinquenne folgorato sulla via del blues, del rock, del funky, del r’n’b più languido e sensuale, e diciamolo, con la consapevolezza e la sfrontatezza di essere (o poterlo diventare a stretto giro di posta) un modello in quanto a stile, coolness e bellezza.

Un binomio che diventerà sempre più stretto quello fra forma e sostanza, ma che almeno in questo folgorante debutto propende decisamente più per la seconda, visto che di carne al fuoco il cantautore e polistrumentista nato a New York (ma cresciuto e formatosi in California) ne ha messa tantissima in questi dieci brani.

Kravitz d’altronde ha respirato arte sin dai suoi primi vagiti, con un padre che vantava esperienze da produttore e una madre per molto tempo piuttosto nota come attrice, in virtù principalmente di un fortunato ruolo nella popolarissima sit-com “I Jefferson” (che molta eco ebbe anche da noi in Italia negli anni ottanta), dove la signora Roxie Roker interpretò l’indimentata Helen Willis; oltre a ciò da adolescente ebbe la possibilità di abbeverarsi dei rimasugli della cultura hippy facendo propri certi valori quali la pace e l’uguaglianza.

Soprattutto, appassionandosi alla musica dei favolosi anni sessanta, Kravitz scoprì che si potevano far coesistere tante influenze e istanze, contaminando un’attitudine solare, dai rintocchi funky e soul, con l’inquietudine del rock e la profondità del blues. Il resto lo hanno fatto la sua maestria con gli strumenti (imparò presto a suonare chitarra, pianoforte, basso e batteria), la sua vorace curiosità e una dilagante creatività, il tutto sorretto da indubbio talento.

Si sprecarono le lodi all’uscita di questo disco, certi critici non temevano di esporsi accostandolo chi a Jimi Hendrix, chi a Prince; alcuni poi sostenevano che il suo avvento musicale racchiudesse al meglio proprio le anime dei due mostri sacri appena citati, in una sorta di combinazione irresistibile.

Forse questa sensazione è durata poco, ma almeno riferito a “Let Love Rule” quei paragoni non appaiono blasfemi.
Ascoltando infatti certi assoli chitarristici (presenti ad esempio in una “Fear” pullulante funk-rock), facendosi trasportare dalle delizie soul di “Does Anybody Out There Even Care”, per non dire della romantica morbidezza di un brano carico di eros e pathos come “My Precious Love”, si delinea netta la sensazione di trovarsi dinnanzi a un lavoro ispiratissimo, vero, sanguigno, che concede sì qualcosa alla patina “commerciale” ma che parte da presupposti ben differenti.
Ci sono pure tanti contenuti che evidenziavano la loro urgenza comunicativa, come nel caso della briosa “Mr. Cab Driver” (con cenni a un caso di razzismo che ha avuto come vittima lo stesso artista) e di una “Bee” di lennoniana memoria con i suoi toni di ideale esistenzialismo.

L’album colpisce innanzitutto per la classe innata che emana a più riprese e per la qualità insita dei suoi pezzi, i quali vanno a lambire tante cifre stilistiche, risultando però sempre credibili, proprio perché Kravitz era sin dal principio artista assai versatile e trasversale che non voleva essere ingabbiato.

La storia ci dirà che probabilmente è stato in primo luogo lui stesso poi a ingabbiarsi in uno stereotipo, in un archetipo sonoro e formale che non ha mai smarrito del tutto il suo fascino primordiale e la sua forza motrice accattivante, ma spesso piegandosi a quelle logiche commerciali qui rifuggite.
Poco male se comunque si è stati capaci, come ha fatto lui dagli anni novanta ad oggi, di consegnare ai posteri brani pop-rock (anche) di pregevole fattura, ma al contempo accessibili a una vasta platea di ascoltatori; il fatto è che via via si è finito per dare sempre meno importanza alla sua musica per soffermarsi sul suo outfit, sui suoi amori e sui suoi muscoli.

Per questo, a maggior ragione, credo sia giusto ricordarlo e omaggiarlo per il suo primo disco e per ciò che è stato e poteva essere, perché in quel 1989 Lenny Kravitz era comparso e subito assurto a nuovo fenomeno, anche perché si percepiva come in netta contrapposizione a tutti quegli artisti “mordi e fuggi” che avevano segnato il decennio edonista e superficiale per eccellenza.

Data di pubblicazione: 19 settembre 1989
Registrato: presso “Waterfront Studios” di Hoboken (NY), “Studio II” di Culver City (L.A.) e al “T.C. Studios” di Somerville tra il 1988 e il 1989
Tracce: 10 (13 nella versione CD)
Lunghezza: 55:27
Etichetta: Virgin
Produttore: Lenny Kravitz

Tracklist:
1. Sittin’ on Top of the World
2. Let Love Rule
3. Freedom Train
4. My Precious Love
5. I Build This Garden for Us
6. Fear
7. Does Anybody Out There Even Care
8. Mr. Cab Driver
9. Rosemary
10. Be
11. Blues for Sister Someone
12. Empty Hands
13. Flower Child