Due anni fa irrompeva sulle scene Jacob Slater con il progetto a nome Wunderhorse e un disco (“Cub”) che ne metteva in luce un indubbio talento, oltre a peculiarità musicali ben riconoscibili.

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Si trattava di una seconda vita artistica per il Nostro, dopo le disillusioni con il gruppo punkDead Pretties ma i tempi erano ormai maturi per riproporsi con una nuova veste, non dico più autentica ma a mio avviso più sentita nel profondo.

Coadiuvato presto dal chitarrista Harry Fowler, sodale sin dai tempi della scuola, Slater è riuscito a materializzare nei Wunderhorse la sua passione per quel rock sanguigno, iconoclasta, genuino, memore del grunge anni novanta, ma al contempo ha innestato il tutto in quest’epoca che è inevitabilmente differente.

Ciò che però accomuna maggiormente il leader della formazione ai suoi “eroi” musicali è quel carattere di urgenza che sembra accompagnare ogni nota ed ogni parola, senza cedimento alcuno, non escludendo una componente “tragica”, come se non ci fosse spazio per introspezione o dolcezza.
Detta così sembrerebbe la sua una proposta oltremodo complessa, ostica, da affrontare ma il “miracolo” sta proprio nell’aver reso accessibile questo versante oscuro dell’esistenza, grazie all’innata capacità melodica e alla potenza evocativa della scrittura.

“Midas” sin dalla sua stupenda traccia eponima d’apertura (che suona come dei Counting Crows più nervosi ed elettrici) mostra un’evoluzione in tal senso rispetto al pur brillante esordio (su queste pagine già molto apprezzato), laddove a rimandi inevitabili a mostri sacri come Nirvana e Pearl Jam (con vette interpretative di stampo cobaniano nelle ruggente “Arizona” o nella dolente “Silver”) emergono parentele con certo brillante alternative rock “alla Pixies“, quando non proprio delle affinità con lo slowcore (penso alla conclusiva “Aeroplane”).

Nel mezzo ci imbattiamo in episodi che ondeggiano tra rabbia e redenzione (agli antipodi in tal senso vanno annoverati “July”, che ricorda qualcosa dei Deftones, e la sognante “Superman”), senza smarrire un briciolo di ispirazione e di tensione narrativa, con l’apogeo rappresentato dalla struggente “Emily” che sarebbe la prima canzone che consiglierei di ascoltare a un neofita del gruppo.

Jacob Slater – che abbiamo visto di recente anche in veste di attore nella miniserie “Pistol” di Danny Boyle dove interpretava il batterista Paul Cook – appare anima inquieta e mai soddisfatta, ma al momento è proprio questo aspetto a fare da traino alla sua naturale traiettoria artistica e che potrebbe in realtà proiettare il nome Wunderhorse molto in alto nel firmamento del rock odierno.