Non ci si riesce a stare dietro a tutte le date in cui questo album dei Muse sarebbe stato pubblicato nel lontano 1999. Si legge un po’ di tutto su Wikipedia, proprio a causa di uscite differenziate a seconda della nazione. Noi diamo per buona la data del 4 ottobre 1999, giornata in cui il disco uscì nel Regno Unito.
Album d’esordio che, all’epoca, lanciò verso l’alto la carriera (che comunque esplose veramente con i lavori successivi – qui, anzi, era ancora l’America che sembrava più recettiva per il loro sound rispetto all’Inghilterra – ) di questi tre ragazzotti del Devon che, sotto la mano sapiente di John Leckie seppero dare forma e sostanza a chi intravedeva in loro i degni eredi dei Radiohead. Poco male se poi, nel loro percorso artistico, l’egocentrismo e un barocchismo degno di Queen strafatti di acido e di hi-tech, abbia preso il sopravvento. Quello che abbiamo fra le mani è un buon guitar-rock album di una formazione che aveva imparato a dovere la lezione della band di Oxford (“Overdue” ad esempio è proprio Radiohead al 100%), ma che, nel frattempo inizia a mostrare una certa predilezione per percorsi più ampi, che non disdegnano l’hard-rock quanto visioni più progressive, così come una certa capacità di strizzare l’occhio a una componente epica che sempre più diventerà preponderante. L’eclettismo, che poi diventerà marchio di fabbrica dei Muse, qui sta germogliando, spinto dai falsetti (e dai giri di chitarra) di Bellamy e da una squadra ritmica che si dimostrava già validissima.
Mi piacevano questi Muse. Ricordo un loro vecchio live in Italia (credo proprio di questo tour), Alcatraz forse (?), (di supporto c’erano i deliziosi JJ72) e venni fuori dal locale con l’immagine di una band quasi metal, altro che pop-rock. Dal vivo erano già una potenza, ma in studio, seppure giovani, non erano affatto acerbi o sprovveduti, anzi, la personalità non faceva difetto. Complice anche il fatto che la gavetta era ben stata fatta negli anni ’90 e i tempi non erano stati affrettati di certo.
Oscuri ma anche dannatamente potenti, capaci di lavorare ai fianchi, quasi in modo sornione e poi piazzare il colpo da KO direttamente in piena faccia (“Fillip” è, a mio modo di vedere l’emblema di questo disco, perchè più che un brano è una scatola cinese, un brano che continene altri brani uno dentro l’altro): questi erano i “primi” Muse, che riuscivano anche a tenere il freno a mano tirato senza voler strafare. Tante chitarre, dicevamo, anche distorte e deraglianti (“Sober”, sempre amato questa canzone), ma anche variazioni sul tema con momenti di assoluto lirismo evocativo (“Unintended” su tutte o la passeggiata delicata di “Falling Down”) e poi la magia pianistica (il piano gioca un ruolo tutt’altro che secondario nel disco, basti sentire anche il passaggio magnifico in “Cave”) di “Sunburn” che mette la pelle d’oca anche dopo 20 anni.
Ora i Muse sono cambiati, certo, ma fa ancora piacere risentirli “com’erano”. Un gran bel piacere.
Muse – Showbiz
Durata: 49:28
Dischi: 1
Tracce: 12
Genere: Rock alternativo, Rock progressivo, Neoprogressive
Etichetta: Maverick Records, Taste Media, Mushroom
Produttore: John Leckie, Paul Reeve, Muse
Sunburn ““ 3:53
Muscle Museum ““ 4:22
Fillip ““ 4:01
Falling Down ““ 4:33
Cave ““ 4:46
Showbiz ““ 5:17
Unintended ““ 3:57
Uno ““ 3:38
Sober ““ 4:04
Escape ““ 3:31
Overdue ““ 2:26
Hate This & I’ll Love You ““ 5:09