“Diventai grande in un tempo piccolo”
Vi è racchiuso un mondo nel verso bellissimo di uno dei pezzi più iconici di Franco Califano (scritto insieme ad Alberto Laurenti e ad Antonio Gaudino). Fateci caso: si tratta di un pensiero poetico – quasi filosofico – che potrebbe adattarsi benissimo – purtroppo – al percorso intrapreso dai Coldplay e dal sempre più Jovanottiano, Chris Martin (sì, dai, un pezzo come “Penso Positivo” avrebbe potuto scriverlo benissimo il leader del gruppo inglese) nell’ultimo decennio.
Naturalmente, non staremo qui a menarcela con il solito discorso del “Dopo ‘Viva La Vida’ i Coldplay sono andati a picco“. Chi scrive, infatti, ritiene che album di buona fattura quali “Ghost Stories” o lo stesso “Everyday Life”, tutto sommato, abbiano donato una linfa più dignitosa e apprezzabile alla discografia dei Nostri. Si tratta, però, di episodi sporadici. Di piccoli squarci di luce in un cielo decisamente grigio. Sono diventati grandi in un tempo piccolo, i Coldplay. E adesso non c’è limite al peggio.
“il peggio”, nell’anno di grazia (poca, in verità, a livello musicale) 2024, si chiama “Moon Music”. Un prodotto così scadente e senz’anima che verrebbe voglia di rivalutare gli ultimi cinque dischi degli U2 e candidarli in maniera postuma ai Grammy. Non ce ne voglia il caro vecchio Chris, ma in brani come “Feelslikeimfallinginlove” e “Aeterna”, gli unici secondi degni di nota sono quelli conclusivi, quando le note sfumano e i timpani ricevono un momentaneo senso di benessere. E cosa dire di “Jupiter” e “All My Love” se non che sembrano scritti attraverso un’app di intelligenza artificiale? Male, malissimo. I tempi di “X&Y” – per il sottoscritto, il miglior disco dei Coldplay – sembrano appartenere ad un’epoca lontana, lontanissima, quella in cui gli Assiri e i Babilonesi si mettevano a studiare trigonometria avanzata (fatto storico accertato di recente, tra l’altro). Soprattutto quello che disturba è quella forte sensazione di disordine, con una tracklist in cui pur di far contenti tutti, compare realmente ogni cosa, a casaccio: si fa veramente fatica ad ascoltare un disco senz’anima e per giunta votato quasi esclusivamente ai più poveri lidi commerciali.
Sia chiaro, lungi dallo scrivente sparare sulla croce rossa. Anche perché, soprattutto per quelli nati alla fine degli anni Ottanta, i Coldplay hanno rappresentato una bella fetta di adolescenza. Epperò, le chitarre del buon Jonny Buckland sono state seppellite dai concerti iper-colorati e dalle produzioni patinate, mentre il mood atavicamente pop – ma con un’anima – proposto dai quattro musicisti britannici (diciamo da “Parachutes” a “Viva La Vida”), è stato soppiantato (per sempre?) in nome del successodimassaatuttiicosti e dei braccialetti luminosi. Una vera e propria catastrofe, insomma.
Volendo, potremmo salvare dal disastro (annunciato) due tracce come la title-track (che apre il disco in modo sontuoso, con questa lunga intro e poi un mood realmente intenso e vibrante che, lo ammetto, mi aveva fatto ben sperare) e “iAAM”. Poco, pochissimo, per la band di “Sparks” e “Clocks”. Comprensibile, dunque, che ai più nostalgici venga quasi il magone nel ripensare ai suddetti brani. Quei Coldplay e l’adolescenza se ne sono andati via per sempre. E da un pezzo, purtroppo.