Pirandello diceva che l’uomo ogni giorno indossa diverse maschere, mostrando determinati lati di sé agli altri in base al contesto; possiamo, dunque, davvero dire di conoscere qualcuno in tutto e per tutto? O ancora, in un mondo sempre più cinico e incentrato sulla produttività, quanto ci è permesso sognare? Questi e altri interrogativi sono quelli posti dai Maximo Park nel loro ultimo disco, “Stream Of Life”: un flusso di coscienza sulla vita un po’ surreale che però non si prende troppo sul serio, in perfetto stile Maximo Park. Ne abbiamo parlato con Paul Smith, cantante del gruppo.
E dunque, come nasce “Stream of Life”?
Negli ultimi anni abbiamo continuato a scrivere, ma il processo per fare il disco è stato un po’ più lungo di quanto avrei voluto. Intanto l’anno scorso ho pubblicato sulla mia etichetta un album folk con la mia amica Rachel Unthank, e già questo ci ha tolto sei mesi del nostro tempo. Duncan, poi, suona con la sua band. Le canzoni stavano arrivando così molto lentamente, ma a metà dell’anno scorso abbiamo deciso di fare davvero un grande sforzo e abbiamo iniziato a prenotare le date per il tour, che è quello che ci sarà tra ottobre e novembre di quest’anno.
Molte delle canzoni le abbiamo finite nell’autunno dell’anno scorso, così ci siamo messi in contatto con Ben [Allen, ndr], che ha prodotto il nostro ultimo disco. Ci avevamo lavorato in isolamento, ma stavolta volevamo davvero andare nel suo studio ad Atlanta, Georgia, negli Stati Uniti.
Lo abbiamo contattato, ma era già impegnato con la produzione dell’ultimo lavoro di Soccer Mommy, quindi non sarebbe stato disponibile fino alla fine di febbraio. Noi, nel frattempo, abbiamo prenotato un ragazzo chiamato Burke Reid, che vive nel sud della Francia, che è volato a Newcastle. Abbiamo registrato con la nostra band dal vivo, è stato fantastico, perché significa che Jemma, che suona la tastiera, e Andrew, che suona il basso, sono ben rappresentati nel disco, si sente per davvero l’energia che riusciamo a metterci dal vivo. Quando poi siamo andati in America abbiamo formato una sorta di nuova band, con Ben come bassista: fondamentalmente, l’album è nato così.
È stato un processo molto rapido perché non siamo rockstar straricche; ce la caviamo, ma sapevamo che avevamo solo tre settimane per registrare prima che i nostri soldi finissero. Ed è stata un’ottima esperienza; alla fine abbiamo avuto un paio di giorni liberi dopo aver finito, siamo andati in gita ad Athens (sempre in Georgia) e, beh, amiamo i R.E.M., i The B-52’s e i Pylon, che sono tutti di Athens. Alla fine abbiamo anche avuto Vanessa dei Pylon, una delle grandi band post-punk dei primi anni ’80, che ha finito per cantare in “Dormant Till Explosion”. Purtroppo eravamo già tornati a casa quando è successo, ma è stato un periodo di nuove esperienze, ci siamo sentiti come se avessimo realizzato un disco che ha la sua atmosfera e sapore particolari.
In copertina c’è un uomo coperto di specchi: una semplice scelta artistica o c’è altro dietro?
In parte è stata una scelta artistica, perché il grafico con cui abbiamo collaborato, Tom Etherington, aveva lavorato per Penguin Books – avevo visto molte delle sue copertine di libri, e gli ho chiesto se voleva collaborare al mio disco da solista, “Diagrams”, uscito nel 2018. Dato che ci siamo trovati bene a lavorare insieme, ha finito per realizzare anche la copertina del nostro ultimo disco [“Nature Always Wins, ndr”], che presentava un dipinto della nostra amica Laura Lancaster. Abbiamo mantenuto quel rapporto, e ci ha presentato le immagini di un fotografo, Ben Zank, che credo sia di New York. Amiamo le sue fotografie, sono un misto di surrealismo e mistero ma sono anche divertenti, quindi credo che riassumano bene la nostra band.
Le canzoni hanno un certo senso dell’umorismo, un po’ dell’assurdo, ma sono anche evocative dei misteri della vita, e quando ho visto quell’immagine particolare abbiamo chiesto se riuscissimo ad averla come copertina dell’album, perché molte delle tematiche del disco riguardano la nostra vita interna ed esterna, come le facciamo combaciare, come agire per mantenere la società funzionante. Credo infatti che la canzone che rappresenta meglio il disco sia “Doppelganger Eyes”, proprio perché parla di come ci fraintendiamo. Ci vediamo reciprocamente in modi diversi; come dice una delle canzoni, “il modo in cui ti vedo non è il modo in cui mi vedi” e viceversa. Vogliamo riflettere su ciò che le persone vogliono vedere in qualcuno, senza però rendersi conto della realtà, come in un processo di idealizzazione. Quindi sì, la foto di Ben Zank sembrava decisamente adatta!
C’è un testo o un verso di “Stream Of Life” a cui sei particolarmente legato?
Sono affezionato un po’ a tutti, scrivendo i testi. Partiamo ad esempio da quello di “Stream of Life”, che dà anche il titolo all’album: l’idea è venuta da un libro di Clarice Lispector, un racconto breve chiamato “Amor”. Sono contento se riesco a inserire alcune delle mie cose preferite nelle canzoni: scrivo canzoni su argomenti che mi interessano, che siano politica, mia figlia, i miei rapporti con altre persone o un paesaggio. Questo è il mio compito, trovare cose che significhino qualcosa per me e sperare poi che significhino qualcosa anche per altre persone. Da “Amor” ho letto una breve frase proprio sul corso della vita di una persona, mi ha colpito da subito così tanto che il concetto di “Stream Of Life” è nato da lì.
Si tratta di quell’idea per cui vogliamo molte cose, ma alla fine quello di cui abbiamo davvero bisogno è altro. Inizialmente nella parte centrale del brano il testo prevedeva un flusso di coscienza, confusionario ma piuttosto divertente. Ben disse che avrei potuto fare di meglio, mi sono messo quindi a riscrivere il bridge nella piccola stanza dove lui era solito provare le sue linee di basso al mattino. Penso che ne sia venuto fuori qualcosa di più riuscito, che lega la canzone al resto del mondo: non sono più solo io che mi sento un po’ schiacciato dalle cose e che affronto i miei problemi. Si sofferma sulle diverse dinamiche di potere, sul patriarcato, il mio posto nel mondo, la mia identità con le mie radici proletarie e tutto quello che comporta, gli svantaggi di questo ma anche i vantaggi di essere un uomo bianco di mezza età, che ha un certo potere che altre persone non hanno.
In tutti i testi posso ritrovare qualcosa che mi piace come ad esempio il verso “Bathed in the light from the gymnasium” in “Favourite Songs”: ho pensato che fosse un’immagine davvero bella perché tutti hanno in mente la loro palestra locale forse quando sentono quella frase e ci legano diversi ricordi – poi insomma, anche solo avere la parola ‘ginnasio’ in una canzone senza che sia davvero ridicolo è un traguardo per me, perché è una parola davvero interessante. Ogni riga è una sorta di sfida per inserire il maggior numero di cose interessanti possibile senza farla sembrare troppo ovvia o troppo contorta, sai. Voglio ancora che le persone si chiedano di cosa parlino le canzoni, ma senza che si trovino davanti un muro di mattoni criptico. Direi che i testi di questo disco combacino con il tipo di musica che facciamo perché la musica è sempre orecchiabile, ed è una sfida interessante provare a fare qualcosa di complesso all’interno di una struttura apparentemente semplice sia musicalmente che testualmente.
Devo dire che mi ha colpita molto la strofa iniziale di “Quiz Show Clue”: “I took up painting in the hope of getting rich / There’s been a hitch / I found no value in the sum of all my art / But I won’t lose heart”.
Mi fa piacere! Si tratta di una strofa intesa come divertente – perché insomma, chi penserebbe di arricchirsi con l’arte? Non è, generalmente il modo ideale per arricchirsi. Allo stesso tempo, però, perché qualcuno di estrazione lavorativa non dovrebbe avere una carriera nelle arti? Perché non dovremmo essere pagati per creare cose belle? Ma d’altro canto, non è per questo che si crea arte, quindi il narratore della canzone è fuorviato. Tutti abbiamo strani sogni su ciò che potremmo essere e su come potremmo farlo, ma la realtà è ben altra. Per questo nel ritornello di quella canzone si dice “Come with me / In a flight of fantasy / Where we could be / Who we want to be”. Dovremmo tutti avere quei sogni, anche se sono irrealistici.
Parlando del tour, c’è qualche band o artista che vorreste particolarmente in apertura?
Abbiamo un sacco di idee e poi diventano tutte troppo grandi. Portiamo fortuna, in un certo senso: per il tour precedente ho richiesto come supporto “una nuova band irlandese, chiamata Fontaines D.C.” Le cose non sono girate esattamente a nostro favore, ma sono contento sia andata bene a loro. O anche gli English Teacher, ad esempio. Adesso abbiamo Melanie Baker, i Carrerist, che sono davvero bravi, e una band che solito faceva da apertura per noi ai tempi d’oro chiamata The Research – una band indie pop molto divertente e con bellissime armonie, sarà bello rivederli. Sappiamo sempre cercare persone molto brave, ma anche con cui pensiamo di poter andare d’accordo sul pullman del tour. Sono comunque persone che vedi tutti i giorni, non le hai mai conosciute ma ti piace la loro musica. Ci sono così tante band e artisti fantastici là fuori che è quasi troppo difficile da scegliere in realtà, poi devi scoprire se sono in tour nel momento giusto e se possono permetterselo, anche perché in termini di costi è un po’ difficile a volte andare in tour, soprattutto al di fuori del proprio paese.
Questo è l’ottavo album, quindi immagino che organizzare la setlist sarà ancora più difficile.
Finora abbiamo sempre suonato qualcosa da ogni disco perché siamo orgogliosi di tutti, ma sta diventando difficile. Siamo consapevoli poi che alcune canzoni sono state più grandi di altre, e penso che non vorrei mai non suonare qualcosa come “Books From Boxes”, perché penso che sia una delle nostre migliori canzoni, e molte persone la amano. Le persone alla fine pagano per venire a vedere la tua band, e noi siamo basati sulle nostre canzoni, non è che siamo una band di free Jazz dove vieni e ottieni ciò che ottieni. Le persone conoscono le nostre canzoni, fortunatamente se ne sono innamorate e ci si sono connesse, quindi è difficile trovare un equilibrio.
Di tanto in tanto daremo comunque un’occhiata a cose che abbiamo fatto: il prossimo anno ad esempio è il nostro 20° anniversario, quindi potrebbe essere un buon momento per dare un’occhiata ad alcune delle cose che ci sono capitate. Siamo però una band viva che continua a fare musica, quindi il nuovo disco sarà una priorità. Significa che potremmo dover suonare ancora più a lungo di quanto facciamo già, ma non vorrei, perché penso che alcune persone suonino davvero troppo a lungo. Cominci a pensare che sì, è stato bello, ma sei stato in piedi per molto tempo. Questa adesso è la nostra sfida: calibrare tutto, rappresentare tutti i diversi lati della band ogni volta che suoniamo.
Come hai detto, l’anno prossimo saranno 20 anni di carriera con la band: c’è qualcosa che vorresti aver saputo 20 anni fa riguardo l’industria musicale?
Penso che avrei voluto godermi un po’ di più tutto, perché non sapevo che sarebbe durato così a lungo. Certo, posso apprezzare di più le cose ora, ma quando abbiamo iniziato sembrava vita o morte, era tutto. A volte ci mettevamo davvero troppa pressione addosso. Ho cercato di non leggere mai recensioni o cose del genere perché si sarebbero fissate nella mia testa e sì, avrei voluto probabilmente godermi un po’ di più l’esperienza, ma ero così impegnato a dare il tutto per tutto – anche adesso lo faccio, ma cerco anche di godermelo.
È che quando stai cercando di farti un nome sembra proprio che se fai un passo falso le cose non vanno bene. Ovviamente posso pensare a episodi passati e dire che certe cose non sono andate bene, o che vorrei fossero andate diversamente. Ad esempio, dopo aver fatto il nostro primo spettacolo in Giappone ed essere volati in America, abbiamo suonato mentre io ero malato. Erano i nostri primi, grandi spettacoli in America, chissà che prima impressione che abbiamo lasciato al pubblico!
Ma ci sono poche cose che puoi fare riguardo a questo tipo di cose, penso. Puoi guardare al passato, dire che è un peccato che certe cose siano successe, ma non rimpiango niente, ho dato il mio meglio in ognuna di quelle situazioni. Quello che avrei probabilmente dovuto fare era dire che non avremmo suonato allo spettacolo piuttosto che continuare a provare… Volevo continuare perché sentivo una sorta di disperazione affinché le persone potessero sentire la band perché ci tengo, così come tengo alla musica che facciamo – può diventare un po’ un’ossessione, se ci penso. Le cose però sono andate davvero bene per noi, per fortuna. Ho una vita nella musica, che è più di quanto avrei mai potuto sperare: non ho mai pensato più di tanto a essere in una band prima dei Maximo Park, non ho mai pensato di volere una carriera, solo che avrei voluto fare qualcosa di buono, fare arte.
Avete realizzato versioni acustiche delle canzoni del nuovo album, racchiuse in un CD chiamato “Footnotes”. C’è la possibilità che le suoniate dal vivo?
Probabilmente no, ma abbiamo pensato di farlo. Una volta l’ho suggerito ma Tom, il nostro batterista, non era d’accordo, perché non avrebbe avuto nulla da fare. Poi per carità, quando abbiamo fatto molti tour, man mano che invecchiamo, e la gente si stanca di vederci, forse è il momento di dire, ecco, facciamo qualcosa di totalmente diverso, un bel tour acustico! Abbiamo suonato una volta con un’orchestra qui nel nord-est dell’Inghilterra, abbiamo riarrangiato tutte le canzoni ed è stato fantastico. Mi piacerebbe rifare qualcosa di così particolare, ma continuiamo a fare nuovi dischi – e una volta che hai fatto un nuovo disco, vuoi suonarlo così com’è, vuoi rappresentare quella migliore versione di essa. Mi piacciono però le versioni acustiche, mi piace fare qualcosa dove si può sentire chiaramente la mia voce piena di emozione e si possono sentire bene i riff di chitarra proprio come li ha scritti Duncan. Sul palco di solito tutto è un unico gran fracasso, una potenza vera e propria in cui tutto si confonde.
C’è qualche locale in cui avete suonato a cui siete legati?
Ci piace suonare in molti posti quindi è un po’ difficile scegliere, suppongo che dovrei dire un posto a Newcastle solo perché viviamo [ride, ndr] ed è fantastico suonare ad esempio al Newcastle City Hall perché è un vecchio grande locale. Ci hanno suonato i Beatles, i Beach Boys, David Bowie, James Brown, Aretha Franklin, quindi è grandioso e storico, ma è soprattutto l’atmosfera che è incredibile. Abbiamo suonato proprio lì durante il nostro ultimo tour, ed è stata semplicemente una delle più grandi serate della nostra vita on the road.
Com’è la scena musicale locale a Newcastle?
Buona, penso. Non è semplice fare una valutazione completa perché le mie responsabilità adesso sono a casa, più che mai. Devo essere realista su questo, ma comunque prendo sempre la rivista degli eventi locali, vedo cosa succede e mi sembra che la gente ami ancora fare musica, e questo ovunque tu sia: l’altro giorno abbiamo suonato a Sunderland, che non è troppo lontano, abbiamo chiesto a due artisti locali di suonare con noi, ed è così che abbiamo conosciuto Melanie Baker e la sua band. Anche Duncan è in una band con Sarah e fanno musica lo-fi, in un progetto chiamato Nano Kino. Quando suoniamo invitiamo sempre musicisti locali, che puntualmente ci arricchiscono sempre, in un modo o nell’altro, e quindi siamo sempre portati a scoprire altri nuovi artisti.