DANIELA PES @ Binario Centrale, DumBO 12/10/2024

Credit: Michele Sanseverino

L’esibizione di Daniela Pes, al DumBo, si è adattata, senza perdere nulla delle sua originaria epicità e della sua delicata poetica, alle atmosfere elettroniche, evasive, festose, incisive e martellanti, del Robot. Due dimensioni musicali che si sono mostrate coese tra loro e che hanno consentito di scoprire, per una notte, l’anima più incalzante, più assillante e più pressante di “Spira”, facendo sì che la dimensione tribale e selvaggia del disco dell’artista sarda prendesse, spesso, il sopravvento su quella più riflessiva e spirituale.

Un album che è pervaso, in profondità, dal cambiamento, sia spaziale, che temporale, che lessicale e comunicativo, non poteva, infatti, non sentirsi a proprio agio in questa edizione numero 15 del festival bolognese. L’universo è ovunque, l’universo ci pervade: le sue crisi, le sue innumerevoli morti e le sue continue rinascite sono parte di noi stessi e del nostro piccolo mondo. Questo dinamismo esistenziale è stato espresso, musicalmente, alla perfezione durante il live: passaggi arrembanti, prepotenti e inclini a raggiungere sonorità acide, ossessive e persino techno, si sono mescolati con momenti di struggente malinconia e con trame meditative di matrice psichedelica, mentre Daniela Pes vestiva, in tutto e per tutto, le vesti di una antica divinità del fuoco.

Fuoco che, però, non è più sacro; fuoco che è stato sporcato dalla superbia umana e contaminato dalla nostra pericolosa follia atomica, diventando, di conseguenza, minaccia concreta di distruzione ed estinzione per l’intero Creato. Fuoco che solamente la simmetria degli incastri, la bellezza delle loro reciproche interferenze melodiche e la benevola concorrenza di trame folkeggianti, elettroniche ed ambient, possono riportare all’ancestrale grado di innocenza e di purezza. Abbiamo bisogno, infatti, di una luce vera, di qualcosa che non sia solo il prodotto effimero di un calcolo di convenienza o interesse; questa luce può essere, senza alcun dubbio, quella del dancefloor, quella che illumina le notti del Binario Centrale, quella che Daniela Pes racchiude nelle sue canzoni-seme.

Questo concerto, dunque, è un vero e proprio atto di curativa espiazione; un momento unico, nel quale possiamo e dobbiamo, finalmente, liberarci, dei filtri che opprimono e disturbano la verità delle cose, delle persone, dei fatti, degli eventi, delle idee e dei pensieri; dei pensieri con i quali, purtroppo, noi stessi, ci imbrogliamo, ci convinciamo di felicità, di certezze o di verità che non esistono, spingendoci, sempre più, verso uno stato di colpevole, disgustosa e rabbiosa paranoia. Uno stato di malessere dal quale possiamo uscire solamente trovando nuovi stimoli, nuove energie, nuove occasioni, nuove percezioni ed anche nuovi linguaggi con i quali poter interagire e comunicare con coloro che abbiamo attorno, proprio ciò che questo concerto, questo disco, queste canzoni e questa splendida artista ci hanno donato e continuano a donarci.

LYRA PRAMUK @ Oratorio San Filippo Neri 12/10/2024

Credit: Michele Sanseverino

Un flusso di parole, di sussurri, di vocalizzi e di armonie orali che si sbarazzano, per sempre, della loro sporca e grezza consistenza quotidiana – caotica, disordinata e materialista – troppo legata alle costruzioni artificiali della nostra epoca, alle loro apparenze formali, alle loro estetiche sotto vuoto e alle loro enormi basi di dati, per ritrovare, finalmente, quella che è un’essenza comune, pacifica e collettiva.

Un concerto, quello nella splendida cornice barocca dell’Oratorio San Filippo Neri di Bologna, che esalta la componente più eterea, mistica e minimale della musica elettronica. Pochi versi di poesia che si espandono in ampi e fantasiosi orizzonti musicali, costruendo ed intrecciando nuove trame sonore, mentre Lyra Pramuk decostruisce gli inutili compromessi richiesti dalla società dei consumi e ricostruisce quello che è il suo e il nostro prezioso inno laico; un inno per ogni essere vivente dell’universo, un inno che esprime la speranza di liberarci, un giorno, dall’ignoranza che, come vediamo quotidianamente, provoca solamente dolore, distruzione e morte.

Una voce unica che assume le sembianze di diversi e molteplici strumenti musicali, confondendoci e, allo stesso tempo, rassicurandoci; lasciandoci, da soli, dinanzi alle nostre paure più irrazionali, ma offrendoci, contemporaneamente, l’amorevole compagnia di un luminoso fiume di voci, un fiume dal quale possiamo lasciarci tranquillamente traportare, senza più alcuna preoccupazione, senza più alcuna ansia, per arrivare al mare. Il mare nel quale, tutti, ci dissolveremo, mettendo, di conseguenza, a fattor comune tutto quello che siamo stati in grado di provare, di costruire, di sognare, di trasmettere e di recepire.

L’obiettivo della performance di Lyra Pramuk è plasmare ciò che abbiamo attorno, ciò che, normalmente, diamo per scontato, come un semplice rumore, come una banale parola, come una frase concepita in un tempo ormai remoto e generare una moltitudine armoniosa di suoni analogici e digitali. Suoni che non più separabili o riconoscibili; suoni che rivendicano il diritto ad esprimere le nostre idee e le nostre passioni, senza che regimi, totalitarismi, dottrine o istituzioni, statali e religiose, tentino, in tutti i modi possibili, di reprimere e di controllare quelle che sono la nostra socialità, la nostra sensibilità, la nostra creatività, la nostra personalità o la nostra sessualità. Le trame verbali e cibernetiche, che si diffondono tra i banchi dell’oratorio, nascono, quindi, dal bisogno insito, in ciascun essere vivente, di esplorare, di conoscere, di imparare, di muoversi verso altri territori e altre dimensioni, verso altri luoghi e altri spazi, mescolando antico e moderno, musica sacra e beat techno, melodie verbali e ritmiche elettroniche, inventando e reinventando, continuamente, la nostra abbagliante umanità.

DREW MCDOWALL @ Oratorio San Filippo Neri 12/10/2024

Credit: Michele Sanseverino

La performance live di Drew McDowall dà voce all’oscurità nel quale è immerso il nostro mondo; l’oscurità nella quale fluttuano, senza trovare alcuna risposta, le domande che, da sempre, da quando gli esseri umani hanno innalzato, per la prima volta, il loro sguardo verso il cielo, ci perseguitano e, allo stesso tempo, ci spronano a sperimentare, a studiare, ad imparare, a creare, a conoscere.

Una sequenza magica che, però, come la nostra storia ci insegna, spesso, ci ha portato a collassare su una pericolosa e distruttiva spirale di odio, di rabbia, di violenza e di morte.

Una performance di synth, che amplifica stimoli, riflessioni e percezioni personali, restando, perennemente, in bilico tra la luce e l’ombra e che offre, a ciascun ascoltatore, la libertà di decidere quale debba essere la chiave di lettura predominante, anche a seconda di quelle che sono le proprie attuali vicissitudini, il proprio umore e le proprie esperienze di vita vissuta. Drew McDowall, intanto, continua, imperterrito, a costruire le sue trame ipnotiche scricchiolanti; i suoi suoni sintetici sono ampi e crescenti, ma non oltrepassano mai l’argine della sua e della nostra umanità, le quali restano sempre visibili, sullo sfondo, in silenziosa contemplazione, anche quando le atmosfere strumentali tendono verso cupi, minacciosi ed opprimenti echi e riverberi di matrice post-industriale.

Questa musica, però, non sferza solamente il futuro, non guarda solamente, curiosa e accorta, a quelli che sono, purtroppo, gli esiti infelici della nostra attuale follia, ma si lascia anche ammaliare e catturare dalle voci e dai rumori di un passato epico e leggendario, quello in cui le stagioni dettavano il ritmo naturale delle esistenze; un ritmo potente che non è andato perduto, non lo sarà mai, perché esso continuerà a vivere dentro di noi e, forse, un giorno, quando saremo sul punto di compiere la scelta fatale, verrà fuori e riprenderà, finalmente, il controllo delle nostre azioni.

Il concerto dell’artista scozzese assume la consistenza ed i contorni di una colonna sonora sci-fi; le divagazioni verso sonorità ambient e post-rock sono frequenti e piacevoli, mentre, nel frattempo, nuvole basse e cariche di tempesta si concentrano davanti a noi e una melodia, astrale e malinconica, dal sapore amaro e penetrante, accompagna i nostri passi. Passi che possono apparire piccoli, incerti o insicuri, ma che non hanno alcuna intenzione di arrestarsi o di invertire il senso del proprio cammino. Sono questo coraggio e questa caparbietà, apparentemente immotivati, la vera bellezza; l’unica vera bellezza capace di vincere il tempo; la bellezza che vive, da sempre, negli esseri umani, nelle loro opere e nelle testimonianze del loro passaggio su questo minuscolo pianeta verde-azzurro.

MARTA SALOGNI & FRANCESCO FONASSI @ Chiesa di San Barbaziano 11/10/2024

Credit: Michele Sanseverino

Un set per umanità disperate e disperse nel grande mare dei bellicosi e sanguinari conflitti moderni; un set grazie al quale Marta Salogni e Francesco Fonassi, mediante le loro suadenti trame elettroniche e l’utilizzo di macchine a nastro – memorie di un più romantico e, per certi versi, più puro, innocente e speranzoso passato – ci trasportano e ci accompagnano nel mondo situato al di là dello specchio, nella dimensione astrale dell'”‘Orafiore”, laddove  equilibrio e mutamento sono in perfetta armonia e sintonia tra loro.

Il tempo, intanto, si sgretola dinanzi ai nostri stessi occhi, mentre seguiamo lo scorrimento del nastro e, senza rendercene conto, superiamo, in maniera incosciente, il buio ossessivo che ci svuota, ci controlla, ci manipola e ci sovrasta, per riemergere, magicamente, in una vera e propria caleidoscopica tela sonora. Linee di colore che si sovrappongono e si separano in continuazione tra loro, finendo, apparentemente, catturate e trattenute dai loop sintetici, per poi divincolarsi improvvisamente e prendere una direzione del tutto inattesa, inaspettata, inimmaginabile e fortuita. Una direzione che potremmo definire destino, sorte, fato.

Anni, epoche, storie, leggende, volti e parole che sono penetrate e continuano a penetrare nelle pareti, negli spazi, negli angoli, nelle pietre e nelle atmosfere della Chiesa sconsacrata di San Barbaziano e che continuano ad esplodere nelle composizioni di Marta e Francesco, energia live che non è più racchiusa in un immobile e triste potenziale statico, ma che riverbera tutt’attorno a noi, in ogni rumore, in ogni eco, in ogni vibrazione, in ogni delay, in ogni distorsione, in ogni basso, lasciandoci, nel frattempo, in piacevole balia dei nostri stessi pensieri, delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e della nostra ritrovata libertà emotiva, ma senza perdere il contatto con la simmetria, la pace, l’equilibrio e il senso di amorevole proporzione insito nelle transizioni e nelle trasformazioni naturali.

La sfera sta crescendo, sta inglobando sempre più anime, sempre più fantasie, sempre più suoni, rendendoci, sul piano pratico e politico, sempre più consapevoli e più responsabili, più concreti e più decisi nel frantumare lo schema patriarcale di potere costituito. Uno schema che offre sempre meno sicurezza, sempre meno serenità, sempre meno gioia, mostrando, oramai, tutti i limiti e tutte le storture derivanti da una ferrea e arida visione bidimensionale della vita: giusto e ingiusto, bene e male, dentro o fuori, o sei un mio amico oppure sei un nemico, ed allora devi essere, necessariamente, contrastato, combattuto, cancellato.   

Marta Salogni racchiude nella sua musica l’essenza di questa edizione numero 15 del Robot Festival: sono animati dal medesimo fuoco; un fuoco che la sua esibizione recepisce ed amplifica, nella felice e appagante percezione di vivere un momento unico, un momento che ci permette di vedere ed ascoltare oltre ogni passato e oltre ogni futuro, ribellandoci ad ogni palude di normalità, ad ogni stanza chiusa, ad ogni confine artificiale, ad ogni sterile definizione verbale e creando, contemporaneamente, un ponte ed un passaggio sonoro con quelle che sono altre appassionati esibizioni al quale il festival bolognese ci ha permesso di assistere. Anime diverse accomunate dall’obiettivo di sconvolgere e superare quel vuoto le cui spine affondano nei nostri cuori, rendendoli, purtroppo, sempre più ingrati, sempre più ignoranti e sempre più insensibili.

VALENTINA MAGALETTI & NIDIA @ Binario Centrale, DumBO 11/10/2024

Credit: Michele Sanseverino

Quella di Valentina Magaletti e Nídia è una delle esibizioni più dense, corpose e consistenti di questa edizione numero 15 del Robot Festival. I suoni, infatti, frantumano i rivestimenti virtuali con i quali la nostra società delle informazioni e dei big data nasconde la verità, mostrandoci, finalmente, il vero volto della realtà di cui siamo parte, nonché le sue innumerevoli contraddizioni, le sue sciocche ipocrisie e le sue colpevoli mancanze.

Le artefici di questa rivelazione sono le due artiste che danno vita a questa performance coinvolgente, proponendoci, dal palco del Binario Centrale del DumBo, un appassionante, suggestivo e divertente viaggio attraverso trame elettroniche sincopate, beat da club underground, ritmiche martellanti di batteria e fantasiosi intrecci di percussioni. Tutto sembra concepito e suonato per invogliare le persone a non stare ferme, ad agitarsi, a ballare, a scuotersi, a liberarsi, a cercare quel contatto reciproco che ci aiuta a comprendere che siamo veri, che siamo vivi e che non c’è alcun pericolo nell’uscire dalla propria sicura, comoda e conveniente bolla esistenziale.

Anche perché questa bolla non è poi così sicura, così comoda e così conveniente come vogliono farci credere; basta guardarsi attorno, basta andare oltre le notizie-farsa dei media di regime; basta prendere contezza delle tante spirali di distruzione che sconvolgono il nostro mondo: quello che, oggi, ci appare distante e remoto, potrebbe, un domani, raggiungerci e mettere a soqquadro tutto quello che consideravamo sicuro, comodo e conveniente. Questo live-set ha un chiaro ed evidente messaggio politico, un messaggio che appartiene al mondo reale, ce ne rammenta l’esistenza e lo fa in maniera spensierata, proponendo una musica globale che trae origine dal cuore, dalle sue pulsazioni e dai suoi battiti e mescolando quelle che sono tipiche sonorità di matrice afro-beat con le trame sintetiche di un dj-set e con tutto quello che, di passionale, di vibrante e di magnetico, viene fuori dalle membrane tese percosse da Valentina Magaletti.

Una musica che potremmo definire solare, ma che è, allo stesso tempo, consapevole delle ingiustizie e dei disequilibri sui quali si mantiene il mondo moderno e il così detto libero mercato. Uno show, quindi, che, come già detto, assume connotati di stampo progressista, in quanto le due artiste rappresentano e suonano le strade giuste, amorevoli, solidali e universalmente accessibili che trascendono le barriere, le divisioni e i confini che separano i popoli. Sono queste barriere che spingono le persone comuni a diffidare le une dalle altre e che, esasperando la tendenza malsana e innaturale a chiudersi nei propri involucri tecnologici, ci impongono di rifiutare ogni forma di contaminazione, di dialogo, di comunicazione e di interferenza proveniente dall’esterno. Ma chiudersi a questi cambiamenti è inutile, nonché dannoso, come cercano di trasmetterci, a modo loro, Valentina Magaletti e Nídia; quand’è che ce ne renderemo conto?

KALI MALONE @ Basilica di Santa Maria dei Servi 10/10/2024

Credit: Michele Sanseverino

La Basilica di Santa Maria dei Servi è un luogo che, da sempre, ha avuto un forte legame con la musica; nel Seicento, infatti, essa ospitava ben quattro organi, mentre, oggi, a sinistra del transetto, vi è il grande organo con il quale la compositrice americana Kali Malone ha dato vita al proprio set intimista e riflessivo, tentando di annullare quelle che, solitamente, sono le enormi distanze tra la sfera materiale e quella spirituale delle nostre esistenze.

Due mondi e due dimensioni umane che non sono avulse l’una all’altra; tutti noi, erroneamente, per convenienza e per comodità, ci lasciamo convincere del contrario, immergendoci, completamente, nei nostri impegni e nelle nostre routine quotidiane, nei nostri inutili conflitti e nelle nostre assurde competizioni. Ma se, almeno per un attimo, accompagnati dalle trame neo-folk ed elettro-acustiche intessute da Kali Malone, squarciassimo il velo del visibile, ci renderemmo conto del fatto che le nostre vite sono ben altro e chiedono ben altro, mentre, continuando ad ascoltare solo la voce del nostro super-ego individualista, rischieremmo di finire intrappolati in quello che è uno sterile e infruttuoso sogno virtuale circolare; una proiezione distorta, fatua ed inconsistente, della verità, imprigionata, per sempre, sullo schermo, ad alta definizione, di uno smartphone.

L’organo, invece, diventa il nostro schermo mentale, lo strumento ed il mezzo per unire le esperienze e le storie del passato con il presente, ma anche per connettere la nostra operosa coscienza diurna con quella notturna, rielaborata e suonata da Kali Malone, quella che è più disponibile e più desiderosa di aprirsi al respiro della natura, ai sussurri del vento, alle onde del mare, al susseguirsi delle stagioni e, soprattutto, al prossimo, ai suoi profondi silenzi e alle sue sofferenze, riuscendo, in questo modo, a ricreare quei legami, di empatia e di solidarietà, che sono indispensabili, se vogliamo sentirci, davvero, realizzati, appagati e completi.

Sonorità intime, attraversate da un velo di struggente malinconia; sonorità che sono, allo stesso tempo, universali e personali; sonorità che non nascondono, con le parole, le leggi, gli assiomi, i precetti o le regole, il baratro di vuoto e di oscurità bramoso di fagocitarci, anzi lo esplorano, lo attraversano, lo toccano concretamente, provando ad umanizzarlo, gettando in esso un minuscolo seme di cambiamento, di metamorfosi e di trasformazione. Un frammento pulsante che potrebbe, germogliando, spostare, persino, l’equilibrio di questo pianeta nello spazio, incastrando, una dopo l’altra, le armonie classicheggianti dell’organo con quella che è una visione darkeggiante dell’esistenza, dell’arte e della musica, una visione che non è assolutamente priva di vita, anzi il contrario, perché la reclama e la cerca instancabilmente.