Tra gli esordi discografici più interessanti questo 2024, per quanto riguarda il rock cantato in italiano, figura “Spegni la luce” dei Maustrap, band vicentina i cui componenti hanno condiviso, sin dagli anni novanta, più esperienze musicali negli stessi gruppi. Per saperne di più su questo nuovo progetto abbiamo intercettato due dei protagonisti, il bassista Ettore Craca e Lele Mancuso, cantante nonchè principale compositore del disco, i quali hanno soddisfatto le nostre richieste.
Buongiorno ragazzi, come state? Da dove mi state rispondendo?
Ettore e Lele: Ciao Gianni, stiamo bene e ti rispondiamo dalla sala prove di Padova. Sabato sera presentiamo dal vivo il nostro disco e stiamo sistemando le ultime cose
Come sta andando questo ritorno in musica? Siete soddisfatti dei primi riscontri? Mi sembra che il disco sia stato accolto generalmente molto bene
È vero, è un ritorno alla musica dopo alcuni anni di inattività e questo ci fa star bene. Quasi come tornare a vent’anni… il passato che non passa mai.
Il disco è stato accolto bene sebbene gli ambiti di diffusione siano piuttosto ristretti per chi esce in ambito indipendente.
Si legge a proposito del progetto Maustrap come sia in fondo diretto discendente delle vostre precedenti esperienze condivise (e anch’io in fase di recensione non ho potuto evitare di farne accenno come elemento di continuità), ma in cosa in particolare differisce? Se doveste pensare a un quid che ne rappresenta invece la sua unicità dove andrebbe individuato?
Il disco affonda le mani in tutte le nostre esperienze passate e non potrebbe essere diversamente.
Abbiamo un’età per cui passato e futuro si fronteggiano a muso duro e il passato a tratti pare abbia i denti più affilati. Però, elementi di novità ci sono o, meglio, sintomi di cambiamento in atto.
E così, rispetto ad un tempo, i brani sono più diretti, immediati. Persino pop a tratti, almeno nelle intenzioni. E fa sorridere perché oggi viviamo l’attitudine pop come una medaglia da appuntare al petto, mentre un tempo si era molto più sospettosi nei confronti di ciò che fosse troppo orecchiabile.
La radice è new wave, il tronco l’indie rock degli anni ’90, i rami risentono di innesti diversi, dal noise, all’elettronica, al reggae.
Rispetto al passato lo scarto principale è forse quello testuale frutto dell’età che stiamo vivendo in questo preciso momento, che è irripetibile, come per tutti e quindi unico come per tutti.
Mi sembra un disco molto vitale anche in quegli episodi più riflessivi (penso ad esempio alla title-track, quella in cui il protagonista si è messo maggiormente a nudo con le sue fragilità): c’era la volontà di lasciarsi alle spalle i momenti più bui, non calcando la mano in fase di scrittura, oppure in generale è giusto guardare avanti con ottimismo, nonostante le brutture di questo tempo che continuano a seguitare?
È un giudizio molto lusinghiero.
In effetti, però, la tristezza può essere vitale. Restando in ambito musicale i Joy Division o i Sound portavano mondi interiori molto contrastati e sofferenti all’interno di strutture sonore spesso energiche. Hai presente quella folgorante battuta di “Ecce Bombo”? Quando Michele Apicella dice al suo amico Mirco: “Io sono triste, tristissimo, però sono teatrale, vitale. Tu sei triste, triste squallido“. Ecco, la speranza sarebbe veleggiare lontano da Mirco. Riuscirci, poi, è un’altra questione…
Per rispondere alla domanda: in verità scrivere è sempre una forma di reazione. Imbracciare la chitarra, scrivere un testo è come rialzarsi, rimettersi in piedi. Anche quando è faticoso.
La stratificazione musicale, con tanti mondi sonori felicemente accostati, è frutto delle vostre differenti inclinazioni personali o una scelta stilistica ben precisa, atta ad evidenziare la vostra apertura musicale e culturale?
Pensandoci forse la stratificazione sonora di cui parli nasconde una qualche disomogeneità del disco. Molti ambienti, molte stanze arredate diversamente che si aprono di brano in brano. Non credo sia solo questione di cultura musicale. È certamente vero che abbiamo ascolti differenziati. Ma la stratificazione del disco probabilmente dipende da un’altra cosa. Non costruiamo i pezzi. Non siamo architetti della musica e non per merito, ma per incapacità. I brani nascono da soli e a volte si manifestano in un modo, a volte in un altro. Noi ci limitiamo ad assecondare il flusso. Di qui la stratificazione.
Avverto la volontà di avvicinarsi al mondo della canzone d’autore (i testi sono davvero interessanti) e al riguardo alcuni brani sono molto promettenti (penso a “Sera” o “Inchiostro”): è questa una possibile evoluzione nel vostro percorso, senza però smarrire una vena pop – emblematica in tal senso “Masquerade” – , che sembra scorrervi nelle vene?
Lele: non ci dispiacerebbe approdare alla canzone d’autore. Al momento però è un orizzonte lontano: non credo sia nelle nostre corde, in fondo siamo fondamentalmente legati ad un passato wave. Devo dire, però, che personalmente il testo è sempre stato centrale in quello che scrivevo, anche a 20 anni. La musica doveva sempre appoggiarsi alle parole e le parole non sono mai state un riempitivo. Ho sempre cercato di partire da un’idea ben precisa nella scrittura di un testo, cui segue un lavoro di cesello per portarlo a rendere al meglio in simbiosi con la partitura sonora.
Non mancano gli episodi stranianti come “Malenica”, che anche a livello interpretativo, col suo incedere recitato “alla Emidio Clementi” (se mi passate l’accostamento) si discosta dal resto della scaletta: com’è nata l’idea di questa canzone, e soprattutto la scelta appunto di declinarla in questo modo, rinunciando alla forma propriamente cantata?
Lele: i Massimo Volume sono stati un ascolto importante e l’accostamento a Clementi ci fa molto piacere. Avevamo un brano, con una linea melodica e un arrangiamento. Dovevo scrivere il testo. Ci ho girato un po’ intorno, ma non trovavo la via giusta e anche nel brano qualcosa non mi convinceva. Stavo per rinunciare e accantonare il pezzo. Poi ho ripreso in mano il mio libro delle poesie del Novecento e sono caduto su Corrado Govoni: “Le cose che fanno la domenica”.
La conoscevo. L’avevo già letta altre volte, ma in quel momento mi si è accesa una lampadina.
Sono andato al computer, ho attaccato il microfono e fatto partire la base. Il brano è venuto così naturalmente. Ho solo dovuto modificare un po’ l’arrangiamento, allungando, accorciando e spostando alcune parti del brano, come i pezzi di un puzzle. La meraviglia del testo non necessitava di alcun cantato, anzi sarebbe stato quasi irriverente. La melodia originaria scritta da Enrico (Ceccato, il batterista), autore del brano, è stata comunque mantenuta nella linea di synth iniziale.
Ammetto una predilezione per una canzone come “Amarcord”, non solo per l’omaggio ai Cure, perché secondo me il testo, particolarmente significativo, si sposa benissimo con un apparato musicale che gli calza a pennello. Al pari di gente come Non voglio che Clara o i più famosi Baustelle, ritengo che trovare un equilibrio tra parole e musica consenta di poter trattare un’ampia gamma di sensazioni e stati d’animo, senza mai apparire tristi o pesanti. È un obiettivo che vi prefissate in fase di scrittura e composizione, o lasciate spazio all’improvvisazione e al fluire di idee e suggestioni?
Lele: in “Amarcord” l’omaggio ai Cure sconfina nell’improntitudine, probabilmente.
All’inizio il brano aveva un altro arrangiamento, ma non ci piaceva. Enrico insisteva per togliere. È un suo mantra: nella musica bisogna togliere, togliere sempre. E allora ho tolto tutto, lasciando le parole appese ad un filo di violino (pesantemente filtrato). Mancava però qualcosa che muovesse il pezzo. Un primo loop con la drum machine non mi convinceva e mi sono ritrovato a pensare: dovrebbe essere più simile a “One Hundred Years”. Poi ho scoperto che non c’era nulla di più simile a “One Hundred Years” che “One Hundred Years”. Di qui al furto, il passo è stato fin troppo breve…
I brani nascono da soli e non ci prefiggiamo un obiettivo. Sono il primo a stupirmi della nascita di un pezzo. Seguiamo le sensazioni che emergono e cerchiamo di assecondarle.
Quali sono le vostre maggiori aspirazioni e aspettative per questa nuova avventura musicale? Siete del tipo che rimpiangete il fermento creativo di un tempo, con annessi spazi e locali per esprimersi al meglio o vi sentite inseriti e a vostro agio anche in quest’epoca fatta di streaming, visualizzazioni ecc?
Non siamo entrati in studio con obiettivi particolari, volevamo solo registrare un disco. Averlo finito e pubblicato con la Dischi Soviet è già molto. In aggiunta, abbiamo ottenuto anche vari riscontri positivi. Non potevamo chiedere di meglio. La più grande aspettativa è avere le energie per registrare il prossimo lavoro.
Non si può negare che il fermento creativo degli anni ’90 sia irripetibile. Siamo grati di averlo vissuto in pieno. Ma non rimpiangiamo il passato (che comunque fatica a passare), ogni epoca ha i suoi pro e contro e la storia non si ferma. Anche oggi ci sono canali per esprimersi, anzi anche più di allora. Ammettiamo che ci fanno un po’ sorridere, ma visualizzazioni e like vanno benissimo. Anche lo streaming va bene. Ne facciamo ampio uso anche noi. Ma ad alcuni nella band piace ancora comprare i dischi.
Ultima domanda: ci sarà modo di vedervi dal vivo in concerto? Cosa aggiunge la componente live a questo disco? Riuscite ancora ad emozionarvi sul palco come le prime volte?
Ci piace molto la dimensione live, ma la questione è complicata. Gli spazi per suonare sono sempre più rari, anche perché forse c’è meno interesse da parte del pubblico, rispetto ad esempio agli anni ’90. Non è solo una questione di tribute band che c’erano anche allora, è più che altro cambiato il linguaggio. Forse i più giovani sono attratti da altre forme espressive o da altri generi e hanno altri luoghi di aggregazione. Non sembra di vedere giovanissimi nei locali che propongono musica indie e i nostri coetanei, be’, forse hanno altre cose in testa.
Comunque abbiamo in calendario alcune date e altre se ne stanno aggiungendo. Suonare dal vivo continua a darci le emozioni di un tempo e i brani nella dimensione live suonano più ruvidi rispetto al disco.