Quando agli inizi degli anni novanta esordirono i Jamiroquai (nome che deriva dalla fusione fra jam e Iroquai, una popolazione di nativi americani dal cui ceppo etnico discende il leader Jason “Jay” Kay), essi rappresentarono da subito una grande anomalia nella scena musicale inglese.
Per quanto ascrivibili al fortunato filone dell’acid jazz, con una proposta venata di irresistibile funky, possedevano in realtà molto di più rispetto ad altri colleghi provenienti da quel mondo di riferimento, tanto che “Emergency on Planet Earth” (emblematico sin dal titolo sui temi che lo compongono), pubblicato nel 1993, non ci mise molto a volare alto in classifica, fino a issarsi in cima in un momento in cui non mancavano di certo altri titoli di rilievo.
Furono tanti i motivi di un simile exploit, a partire dalla straordinaria vocalità del già citato Jay Kay (all’anagrafe Jason Luis Cheetham) che si ispirava dichiaratamente a mostri sacri quali Stevie Wonder e Roy Ayers – quest’ultimo tra i padri dell’acid jazz – non sfigurando certo al loro cospetto.
Una personalità strabordante la sua, che si manifestava non solo nel modo in cui riusciva a catturare la scena nelle infuocate prime esibizioni live (che tanto portarono bene alla band) ma anche per via dell’originalissimo e inconfondibile look.
Figlio d’arte, mosse presto i primi passi sul palcoscenico, appassionandosi all’hip hop ma pure ai suoni caldi della Motown e, dopo aver fallito l’ingresso nei Brand New Heavies, decise che era il momento giusto per provarci in proprio. Per farlo però furono decisivi alcuni innesti in quello che sarebbe diventato il primo nucleo in seno ai Jamiroquai, vale a dire il tastierista Toby Smith, il bassista Stuart Zender e l’australiano Wallis Buchanan che con il suo didgeridoo – uno strumento a fiato originario delle popolazioni aborigene – donerà un tratto caratteristico al sound del gruppo.
Con un successo da oltre un milione di copie nel mondo grazie al solo primo album, la Sony, che fece un grande investimento su di loro, spinse per replicare subito quel risultato chiedendo ai ragazzi di registrare nuove canzoni sulla falsariga delle precedenti.
A quel punto, però, le pressioni cominciarono a farsi sentire, così come i primi dissapori tra Jay Kay e gli altri membri della band, in particolare col valente Stuart Zender, virtuoso dello strumento, il quale manifestò il desiderio di perlustrare in realtà nuove strade.
Alla fine il carismatico frontman ebbe l’ultima parola, coadiuvato dall’amico Toby Smith, suo principale collaboratore nella fase compositiva, ma in ogni caso il successore del pluripremiato debut-album mostrava invero alcuni tratti peculiari che lo rendevano, a conti fatti, un tentativo riuscito di alzare ulteriormente l’asticella della qualità.
“The Return of the Space Cowboy” vide la luce il 17 ottobre del 1994, accompagnato da tantissima attesa da parte soprattutto della stampa anglosassone, che pure all’epoca si stava fregando le mani per quella sorta di rinascimento della scena locale, guidato dalle più interessanti (e chiacchierate) band del britpop.
I Jamiroquai insomma dovevano scontrarsi in partenza con degli autentici pezzi da novanta, tuttavia lo fecero cercando di non immischiarsi in certi ambienti, né tanto meno rimanendone coinvolti a livello puramente musicale. Se proprio volessimo trovare un punto di incontro con nomi coevi come Oasis o Blur, lo potremmo individuare nelle immancabili tute Adidas che anche Jay Kay aveva cominciato a indossare, senza rinunciare ai suo mitici cappelli variopinti e multiformi!
Per il resto però, il nuovo disco proseguiva imperterrito per la propria via artistica, segnata ancora da un evidente eclettismo. Funky, elettronica, acid jazz e soul convivevano armonicamente, infatti, nelle undici nuove tracce, sorretti da Piano Rhodes, synth e batterie, ma tutta l’opera era permeata da una mirabile patina pop che la rendeva unica ed eccitante, oltre che potenzialmente appetibile per un pubblico sempre più vasto.
Attenzione però a non interpretare queste mie considerazioni dandone una chiave di lettura distorta: alludendo al fatto che queste canzoni avessero del grande appeal all’ascolto, non intendevo dire che quella dei Jamiroquai col secondo disco fosse una virata commerciale.
“The Return of the Space Cowboy” vive, è vero, di episodi di grande impatto melodico, finanche trascinanti (a partire dal singolo che richiama la title-track, prima autentica hit fatta registrare dal gruppo) ma al suo interno emerge soprattutto la vasta gamma di scelte musicali e una non sopita esigenza di sperimentare, mediante arrangiamenti particolari e l’uso di una strumentazione atipica per gli standard del pop.
Che i Nostri non volessero adagiarsi sulle ali dei primi fragorosi riscontri lo si evince sin dalla traccia posta in apertura, “Just Another Story”, affascinante caleidoscopio musicale che si dipana per quasi nove minuti miscelando stili e umori, aprendo la strada a uno dei gioielli più fulgidi dell’intera raccolta, la solare “Stillness in Time” in cui il vivace ritmo è scandito da flauto e percussioni.
Ci sono episodi dove l’atmosfera è rilassata, come nella placida “Half the Man” (che davvero sarebbe stata perfetta nel repertorio di Stevie Wonder) o nella suadente “Morning Glory”, dai cenni chill-out, altri invece dove l’attitudine funky emerge chiaramente in superficie per donare vigore e brio a “Manifest Destiny” e “Mr. Moon”.
Sembra davvero funzionare tutto a meraviglia in questo disco; ciononostante anche “The Return of the Space Cowboy” conta i suoi detrattori, i quali gli imputano di essere meno spontaneo e viscerale rispetto al suo predecessore e più orientato a concedersi al mercato. Ma d’altronde Jason Kay non ha mai fatto mistero delle sue grandi ambizioni, né ha vissuto la dimensione di personaggio pubblico all’insegna del basso profilo, anzi, è proprio da questo album che inizia a far parte dello star system e a collezionare auto di lusso.
E se è sacrosanto rimarcare come nel raggiungimento del successo su scala mondiale furono molto importanti anche gli altri componenti della band originaria, tutti ottimi musicisti, parimenti occorre ammettere quanto fosse preminente l’apporto di Jay Kay, al punto che i Jamiroquai, già dal successivo lavoro, un ancora più sorprendente “Travelling Without Moving”, verranno sempre più identificati con il suo istrionico e talentuoso leader.
Data di pubblicazione: 17 ottobre 1994
Registrato: presso gli studi “Townhouse”, “Battery” e “Falconer” nel 1994
Tracce: 11
Lunghezza: 65:44
Etichetta: Sony
Produttore: jay Kay, Mike Nielsen
Tracklist:
1. Just Another Story
2. Stillness in Time
3. Half the Man
4. Light Years
5. Manifest Destiny
6. The Kids
7. Mr. Moon
8. Scam
9. Journey to Arnhemland
10. Morning Glory
11. Space Cowboy