Credit: Raph_PH, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Scrivere qualcosa su Robert Plant, sebbene sia un report, quindi una semplice e sincera impressione di uno dei migliaia di concerti tenuti dal maestro inglese, è sempre materia da maneggiare con cura. Parliamo di un performer, che è realmente storia, sorta di museo vocale (si può dire), si citano spesso artisti, che ricordano o prendono spunto da questo o da quell’altro genitore musicale. In questo caso è lui che prende spunto da se stesso. La storia dei Led Zeppelin la conosciamo tutti, di quanto, nell’epoca più importante del rock, siano stati tremendamente seminali e punto di riferimento per le generazioni successive.

Percorso che si è bruscamente interrotto con la scomparsa di John Bonham, ma che è confluito nelle carriere soliste dei vari protagonisti, una sorta di deja vu, anzi diciamo una prassi.

Fedeli e coerenti al pensiero iniziale, quindi nessuna reunion, anche e ovviamente parziale, erano in quattro e sarebbero sempre rimasti in quattro. Page e Plant, va detto, hanno più volte intrecciato i loro percorsi, compreso un album cointestato anni fa.

Ma ben lontani da vivere una carriera di rendita, anzi decisamente all’opposto di chi ha sempre rincarato la dose, sfruttando un brand consolidato e da comfort zone, niente di tutto questo, sicuramente ingenti somme di cachet lasciate nelle supposizioni di un’ipotetica Reunion con tutti gli accorgimenti del caso.

Quindi un percorso di stima totale, e di un artista vero, lontano dal music business, chiaro che se lo potesse permettere e ci mancherebbe, ma, in musica, nulla è scontato.

Tornando al lungo tour italiano, che ha visto il musicista inglese impegnato per ben undici appuntamenti, da tempo porta in giro, questo spettacolo che condivide con un collettivo a moniker Amazing Graze e con la stessa Suzi Dian a condividere simbioticamente alcune parti vocali, uno show, sicuramente ricercato e particolare, che, senza dover dimostrare nulla, mette in scena la passione e la voglia di fare il mestiere più bello del mondo. Quindi la ricerca e la scelta dei brani va oltre, in un territorio più sofisticato, mescolando concept tradizionali, brani dal repertorio anagrafico, quanto pochi episodi della sua band preferita, generalmente un piccolo assaggio, un omaggio fatto di scelte meno scontate e ben lontane dai brani più popolari.

Di fatto porta in concerto due set, uno a proprio nome e un altro appunto come fosse un ospite eccellente, ma entrambi i set vivono di scelte, come detto sopra, da appassionato di canzoni da riscoprire e con cui familiarizzare da capo. Tra i due set, questo è ancora più ricercato che non lascia spazio a malinconie musicali tradotte in alcuni brani immortali.

Una scelta ricercata e per nulla, appunto, da comfort zone, ma che rispecchia appieno le scelte fatte nel percorso dopo i Led Zeppelin.

Un concerto sentito e sincero di un gigante intoccabile, come direbbe qualcuno

Omaggiati gli immensi Low di “Everybody song” o il Neil Young di “For the turnstiles”, tutta una serie di canti tradizionali e i Led Zeppelin meno appariscenti come quelli di “Friends” o dell’iconica e sempre bellissima “The Rain Song”. Alla fatidica domanda se mi fosse piaciuto questo piccolo viaggio a ritroso, ad una risposta assolutamente affermativa fa da rovescio della medaglia, l’egoistico desiderio di ascoltare qualche brano, che per disegno di legge ipotetico, non dovrebbe mai mancare. Al tempo stesso stimo moltissimo gli artisti che scelgono, come detto sopra, strade alternative ad una comfort zone più che convenzionale.

Quindi va benissimo così.