La parabola di Christopher Owens assomiglia in modo cosi plastico e speculare a molti altri casi in cui artisti eccellenti e dotati vengono intrappolati da un mix di imprevisti che presentano il conto ma anche da derive di inerzia pensierosa, in un buco di oblio dalle scene quasi che il mondo esterno potesse farne a meno, disseminando qua e là solo sprazzi della loro capacità; questa fase di assenza per l’ex leader delle Girls è coincisa con un brutto incidente in moto, con una vita che evidentemente gli è capitata addosso violentemente quando non ha potuto produrre, insomma il dilemma dell’everyday life che si interseca con l’arte.
“I wanna run barefoot throgh your hair” , titolo e copertina che lasciano pochi dubbi sull’essenza dell’album, significa in sostanza riprendere in mano tutta la propria carriera, condensando le migliori canzoni mai scritte dal cantautore americano, che mischia in un’invidiabile amalgama verve ex produzione con le Girls (la nervosa iniziale “No Good”) a tutto un vasto repertorio di classico rock USA che a grandi linee prende il Neil Young elettrico, passando dal soul intriso di romanticismo liquido di bellissime ballad West Coast (“Beautiful Horses”, “White Flag” ma altre)
L’approccio al solito è ciò che fa la differenza, il lungo periodo di inattivita’ non ha dato urgenza, si sente che c’è una pazienza e un atteso compiacimento che accompagna l’ispirazione e la costruzione dei brani, che sgorgano semplici e naturali, nel classico stilema da trio basso chitarra batteria, con qualche tocco di piano, anni 70 (“I think about heaven” sembrano gli America da cartolina), dove l’essenza della creatività rimaneva esclusivamente appannaggio delle quatto mura dello studio, delle linee melodiche di chitarra, qualche assolo vibrante, un’immediatezza figlia di un background denso, una leggerezza di fondo nell’affrontare la quotidianità che si finalizza nello stesso sentimento verso la musica in generale, una sorta di amica cara su cui fare sempre affidamento per confidare il proprio sentimento, l’amore verso qualcuno o le fragilità di un momento.
Infatti, l’afflato romantico che permea quasi tutte le canzoni, viene dolcemente intriso di una patina di white soul, che ricorda più volte da vicino gli iniziali Style Council, (“I know” sembra proprio “Wishing upon a star” come propone l’intro ma anche “Distant Drummer”) e il loro stiloso mood, che in sintesi è la cifra di Owens che riesce nella non semplice capacità di non essere lezioso nè mieloso nelle dichiarate effusioni, soprattutto in considerazione della corposità dei singoli brani, che hanno quasi tutti un minutaggio consistente, dove la libertà creativa è la summa libera e calibrata di un songwriting dall’alto livello compositivo, con canzoni che abbinano immediatezza a calore , che a volte si dilatano in corpose parti strumentali, ma che poi terminano e si riconoscono come parti essenziali che chiudono il cerchio del brano.
Canzoni che al secondo ascolto si ricordano tutte indistintamente, che penetrano nel nostro immaginario comune e che rimangono li senza peso e sempre presenti, come dei veri classici.