In linea con illustri colleghi (Jamie XX, Floating Point) che nelle loro recenti produzioni hanno abbracciato un’idea comune di leggerezza e ritorno alle origini, anche per il quarto album dell’artista gallese ci si abbondona alle sensazioni e alla riscoperta semplice e pura del dancefloor, come se questi tempi incerti ed impegnativi ponessero all’angolo questa generazione di post dj che si svicolano da progetti di ricerca, non sapendo dare altro che una risposta che si basa sugli istinti, una risposta diretta, che vuol dire tanto, che artisticamente corrisponde a momenti di pura e sana evasione.

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Non bisogna però essere così critici e contestuali con questo tipo di musica che nasce così, dall’esigenza di dare spazio ai corpi e liberare la mente che ad onor del vero la precedente produzione di Kelly Lee Owens aveva trascurato a favore di una volontà di elaborare la matassa electro in forme più personali, per cui “Dreamstate” appare una sorta di antitesi, ma anche di liberazione auspicata e godibilissima.

La producer come d’incanto mette (letteralmente ) sul piatto le cose che le piacciono di più, della sana house, deep, trance, chill, comunque mai ingombrante, che (ci) ricorda i gloriosi tempi della club culture, di un’idea di post wave che evoca Underworld, Orbital, i soliti noti insomma, e quando poi si scopre alla alla produzione c’è anche un certo Tom Rowland allora tutto torna, perchè i riferimenti ai fratelli chimici qui abbondano e sono l’anima eccitante dell’album.

Già con l’iniziale “Dark Angel” con quel suo andamento soffuso e compresso si capisce che stiamo viaggiando sulle onde percettive, una trance quasi psych che ci porta nell’emisfero di una notte, di un tempo dilatato in cui si allentano le difese sensoriali, sembra un tappeto shoegaze che poi apre le strade all’irresistibile titletrack, dove iniziano le danze vere e proprie, per poi seguire con l’immediatezza del singolo “Love You Got” e il resto a seguire sempre di altissimo livello.

La Owens non fa niente per nascondere l’approccio diretto dei brani che si rispecchia anche nel tenore dei testi, che rientrano in questa manifestazione di vitalità, così intrisi a mo’ di slogan di parole chiave (rise, higher, dream, love, desire) come se il solo pronunciarle fosse essenziale senza declinazioni alcune o sovrastrutture; inoltre, c’è tanta voce, una parte fin qui poco conosciuta e valorizzata, che sintetizza alla perfezione questa traduzione emotiva, anzi la sua voce esce finalmente come non aveva mai osato prima, così matura e sicura che d’ora in poi non le si può negare qualsiasi traguardo, come ad esempio nelle ballad electro, dove la calma dell’assenza dei beat sembra voler accarezzare chi ha provato l’ebbrezza del dancefloor, accompagnandolo per un ultimo respiro di tempo e desiderio, come nello splendido etereo finale.

Un disco che ha dei momenti irresistibili, che vien voglia di riprendere ogni volta certi che possa accrescere il livello umorale, come se fosse una droga per la nostra mente, per quella eterna appiccicosa sensazione così necessaria di avere la testa fra le nuvole e sognare , sognare, di essere, almeno fino alla fine dell’ascolto, in uno stato di sogno.

The dreamstate