Veniva pubblicato trent’anni fa “Amber”, seconda prova discografica degli Autechre che però, a detta di molti, ne rappresenta il vero debutto.

“Incunabula” infatti, dell’anno precedente, raccoglieva i primissimi pezzi incisi da Rob Brown e Sean Booth, già sufficienti a suscitare e raccogliere l’interesse dell’etichetta Warp che si stava facendo conoscere sin dalla sua fondazione (avvenuta nel 1989) per il lancio e la scoperta di tanti nomi importanti della musica elettronica.

Non potevano d’altronde passare inosservati i due che, dopo un’iniziale fascinazione per il mondo dell’hip hop trovarono nella sperimentazione spinta la loro chiave espressiva, divenendo a propria volta delle figure cardine per l’esplosione di quel particolare filone musicale, al quale è facilmente possibile associare gente come Aphex Twin o gli Orb.

Se possibile però gli Autechre erano ancora più sfuggenti, indefinibili con la loro proposta che poco o nulla concedeva alla melodia per disperdersi invece in rivoli sonori che potessero indurre l’ascoltatore a immaginarsi egli stesso dei mondi lontani.

Con “Amber” i Nostri come anticipato vanno a definire il proprio sound, innestando in trame fortemente influenzate dall’esperienza coeva di Aphex Twin, delle dinamiche diverse, con forti elementi di matrice techno.
Il tessuto però rimane indissolubilmente incontaminato, spazio aperto cui inserire dettagli talvolta impercettibili, triturati come sono dal vortice emotivo e sonoro: si pensi all’algida maestosità di un episodio come “Foil”, non a caso posto in apertura di scaletta.
Mi aggancio per dire che pure la splendida copertina (opera di Ian Anderson dello studio The Designers Republic) – che rimanda alle formazioni rocciose della Cappadocia – è esemplificativa della natura candida ma ruvida allo stesso tempo del progetto artistico del duo.

È questo un brano che dà la precisa misura di quanto gli Autechre sapessero maneggiare a proprio piacimento la materia elettronica, con una musica (definita IDM, acronimo che sta per Intelligent dance music) che lungo oltre sei minuti si caratterizzava per i suoi vorticosi saliscendi: magistrale è in tal senso a metà brano il repentino rallentamento dei bpm, fino all’inabissarsi finale.

In altri momenti, invece, la variabile ambient è maggiormente esplorata, penso alla suggestiva “Further”, con i suoi moti ondosi e rarefatti, e a “Nine”, forse la traccia meno nervosa del lotto.
In conclusione arriva “Teartear”, sorta di compendio di ciò che abbiamo ascoltato, la quale centrifuga al suo interno tanti pezzettini pulsanti ritmo, ora frenetico ora ipnotico, concedendosi delle anomale divagazioni psichedeliche.

“Amber” segnava in maniera chiara e indelebile il ruolo che gli Autechre avrebbero assunto, magari in maniera inconsapevole, nella scena musicale degli anni novanta, finendo per influenzare altri gruppi che, grazie alla loro esperienza, avevano capito che era possibile non porsi più alcun limite strutturale.

Il caso più emblematico fu quello dei Radiohead, i quali dichiaratamente folgorati da un disco come questo (e dai successivi “Tri Repetae”, “Chiastic Slide” e “LP5″, pubblicati nell’arco di un triennio) trarranno forte ispirazione per avviare la loro personale rivoluzione del rock con “Kid A” agli albori del nuovo millennio.

Data di pubblicazione: 7 novembre 1994
Tracce: 11
Lunghezza: 74:27
Etichetta: Warp
Produttore: Rob Brown e Sean Booth

Tracklist:
1. Foil
2. Montreal
3. Silverside
4. Slip
5. Glitch
6. Piezo
7. Nine
8. Further
9. Yulquen
10. Nil
11. Teartear