I confini di Strea non sono così chiari come sembra e direi che il bello sta proprio qui. Ti pare di poterla etichettare nel prog-rock (e la presenza di un collaboratore come Colin Edwin ci potrebbe avvalorare la teoria), ma poi ecco che invece emerge un lato più pop, accattivante e piacevolmente radiofonico, potenziato anche da quella voce favolosa e suggestiva che la fanciulla si porta in dote, tanto avvolgente e dolce quanto capace di un lirismo affascinante. Il bello è che le canzoni stesse cambiano rotta, si trasformano e si fanno cangianti, pronte a spiazzarci quando ci piacerebbe etichettrale a dovere. Ma non è ancora tutto delineato, perché anche il folk ci sembra avere la sua componente, così come un cantautorato in odore di art-rock. “Rise”, se vogliamo essere sinceri e ampliare ancora il tiro ha quasi un taglio hard-rock che si sublima in quel finale molto coreografico.

Molto bello l’uso del piano, che dialoga spesso con la chitarra per rendere il tutto ancora più suggestivo.

Difficile quindi etichettare la giovane artista bresciana Irene Ettori, che ha dalla sua intraprendenza e anche voglia di rischiare, perché confrontarsi con “Running Up That Hill” di Kate Bush e con “The Lost Song Part II” degli Anathema non è certo segnale di “state tranquilli, vado sul sicuro“, quanto di “ho proprio voglia di mettermi in gioco“. Brava Irene.

Note di merito per “Bright Side” che, tra le tante, voglio veramente usare come cartina tornasole di quanto dicevo prima, ovvero della capacità di Strea di giocare su campi diversi nella stessa canzone e qui, davvero, abbiamo le tante maschere, tutte credibili, di una polistrumentista che mi ha realmente colpito.

Listen & Follow
VRec: website