Quando arrivano determinati anniversari, diventa necessario, volenti o nolenti, voltarsi indietro. In questo caso ritorniamo al 1994, anno nel quale uscirono dischi di importanza fondamentale, come il geniale e divertente “Ill Communication” dei Beastie Boys, il romantico e malinconico “Let Love In” di Nick Cave, il prezioso e struggente “Grace” di Jeff Buckley, il più morbido e melodico “Experimental Jet Set, Trash And No Star” dei Sonic Youth o l’epitaffio “Sky Valley” dei Kyuss.

Intanto il grunge guardava oltre sé stesso e le contraddizioni della società, oltre il fuoco che lo stava, rapidamente, consumando, oltre la sua anima inquieta, e lo faceva con album diversi ed eterogenei tra loro, ma tutti desiderosi di percorrere nuove strade emotive e sonore e di riprendersi l’innocenza perduta, come, ad esempio, “Unplugged In New York” dei Nirvana, ma anche “Vitalogy” dei Pearl Jam, “Jar Of Flies” degli Alice In Chains, “Superunknown” dei Soundgarden o “Hungry For Stink” delle L7.

In quegli anni la dimensione musicale più main-stream, radiofonica e commerciale e quella ritenuta più sotterranea e alternativa iniziarono a confondersi, intrecciarsi e sovrapporsi tra loro, riportando al centro della scena, ad esempio, le melodie pop-punk, divertenti e chitarrose, di band come gli Offspring di “Smash” o i Green Day di “Dookie”, anche se, per rimanere, ovviamente, al 1994, preferisco, di gran lunga, il più tagliente “Punk In Drublic” dei NOFX. Resta il fatto, però, che, in quell’anno, la commistione tra alternative-rock e hit commerciali, condusse molti di questi brani ad arrivare anche al cinema, ne sono un esempio pellicole leggendarie come “Il Corvo”, “Natural Born Killers” e, ovviamente, “Pulp Fiction”.

Era lunedì, il 14 Ottobre del 1994, quando questo film uscì nelle sale; una sceneggiatura – che poi avrebbe vinto un Oscar – che intrecciava tra loro, in maniera non lineare, obliqua e assolutamente geniale – tra droghe, violenza e follia – diverse linee narrative principali. E fu così, in pratica, che quella massa di materia umida, molliccia e senza una forma precisa, come, appunto, un cervello umano schizzato sul retro di una Chevy Nova, divenne il segno inequivocabile di una storia, di un’alchimia, di un’architettura narrativa, di un genere, di un film, di una visione umana: pulp.

Eventi e personaggi magnetici che, sin da subito, ampliavano il limitato contesto geografico della narrazione tarantiniana – la sua Los Angeles – e diventavano globali e collettivi, al di là del kistch hollywoodiano, al di là dei dialoghi surreali, al di là dell’immaginario pop americano, perché ciascuno aveva la sua storia, più o meno pulp, più o meno fantastica, più o meno assurda, più o meno inverosimile, più o meno kafkiana, da condividere e raccontare.

E così quei dialoghi arguti, quelle battute scambiate tra crudeli ed efferati sicari, sull’hashish e sul sistema metrico decimale, diventano parte di una leggenda e di un mito, così come avviene, del resto, per il celebre appuntamento serale tra Vincent Vega e la moglie del suo capo Marsellus Wallace, Mia, per quel ballo ormai iconico e per quella dose di eroina scambiata per cocaina. Scene indimenticabili – così come lo sono le musiche che le hanno accompagnate e che continuano ad accompagnarle – musiche che daranno vita ad una popolare colonna sonora, rendendo questa pellicola, nella sua interezza, parte del nostro immaginario fiabesco, di quel territorio invisibile nel quale fantasie e percezioni, visioni e immagini, miraggi e ricordi, si mescolano tra loro, in un gioco che prende per il culo lo stesso destino, un gioco comico e drammatico, un gioco arcano e misterioso, un gioco crudele, smanioso, sconvolgente, ma assolutamente vivido, rumoroso ed appassionante.

Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi.”