E chi ci sperava più nel ritorno delle Our Girl? Dopo sei lunghi anni, però, il trio di Brighton è tornato alla ribalta con un disco vulnerabile ma maturo, che parla di cura ma anche di come a volte l’unica via per ottenerla sia attraversare la strada più difficile. Un album dolce ma intenso, di cui abbiamo parlato con la cantante Soph Nathan, al momento dell’intervista impegnata con le Big Moon nell’apertura dei concerti ai Glass Animals. Tra una settimana partirà invece il tour in Regno Unito delle (anzi, tecnicamente degli!) Our Girl: ma lasciatevi trasportare dalla potenza emotiva di “The Good Kind”, e scopritene i retroscena nella nostra intervista con Soph.
Ciao Soph, la prima domanda non può che essere per questo tour che ti vede impegnata con le Big Moon insieme ai Glass Animals… Come sta andando?
Soph Natan: Sta andando bene! Ieri abbiamo viaggiato praticamente per 24 ore, ma a parte questo è andato tutto bene. Mi sento un po’ in balia del jet lag, sono stanca e mi sembra quasi di dimenticarmi le parole, ti chiedo scusa in anticipo!
Ma ci mancherebbe! Parliamo allora di “The Good Kind”: come nasce questo titolo? Sappiamo che uno dei brani del disco si chiama così…
I miei sensi sono molto legati ai miei ricordi, mi piace percepire odori e sapori e vedere dove mi portano, perché ricordo sempre il momento in cui si sono create determinate sensazioni. Mi è successo anche quando ho ascoltato Ella Fitzgerald, l’hanno trasmessa alla radio e la sua voce mi ha riportato con forza a un ricordo. Stavo cercando di descrivere quella sensazione, quella sorta di nostalgia calda, in un certo senso. Il sentirsi un po’ triste, ma in un modo confortante… Un momento di calore che arriva inaspettatamente. È una sensazione positiva [the good kind of feeling, ndr]. Non è necessariamente negativo provarlo.
Come descriveresti la differenza tra il fare musica con le Our Girl e farlo nelle Big Moon? Riesci staccarti tranquillamente da “un mondo sonoro” per passare all’altro in scioltezza?
Sono molto diverse, ma faccio parte di entrambe le band da 10 anni e abbiamo iniziato più o meno nello stesso periodo. È interessante perché mi piace far parte di entrambe ma in modo diverso, con le Our Girl canto e scrivo ogni canzone, la musica anche è diversa. Sono andata in tour diverse volte con le Big Moon, mentre con le Our Girl mi sento un po’ più nervosa perché non siamo state così tanto in giro. Mi piace stare in entrambi i progetti però, amo poter scrivere una canzone e decidere la direzione in cui andrà, così come amo essere una figura di supporto. È un buon equilibrio, direi!
Sono passati 6 anni dall’ultimo album con le Our Girl. Come ci si sente a tornare dopo tanto tempo? Vedendo le difficoltà incontrate nella registrazione, beh, penso che avere fra le mani il disco sia stato davvero motivo di grande orgoglio per voi.
È una bella sensazione. È da un po’ che non suoniamo dal vivo, ed è una parte molto importante di noi come band, quindi è un sollievo poterlo fare di nuovo. Abbiamo pubblicato il primo disco, siamo andate in tour, abbiamo iniziato a lavorare a quello dopo, e poi è arrivata la pandemia.
Ci sono state molte ragioni per cui la realizzazione dell’album ha richiesto più tempo. Direi che è stato un processo piuttosto difficile da realizzare, ora sono così felice di quanto abbiamo imparato e di come siamo arrivate al punto in cui ci troviamo. Quindi ora sono pronta a metterlo in circolazione, a celebrarlo e a portarlo in tournée, e come dicevo è davvero un sollievo farlo di nuovo. Tra l’altro, è solo condividendo la musica con le persone che mi sono sentita come se la musica delle Our Girl non fosse arrivata ancora alla fine, anzi. Dovevamo solo aspettare per poter continuare a interagire con altre persone.
Oltre “Stranger today” avevate pubblicato una “Bedroom Record”, una versione rivisitata del disco con diverse demo, e poi anche un album live. Pubblicherete progetti simili con “The Good Kind”?
Non l’abbiamo pianificato, ma mi piacerebbe fare qualcosa del genere. Esistono diverse versioni ridotte di alcune canzoni dell’album, sarebbe bello condividerle, perché effettivamente ci sono molte demo di solo me che canto (ride). E il “Bedroom Record” era più o meno questo, si trattava perlopiù di demo, e forse è qualcosa a cui potremmo dare un seguito. Non abbiamo in programma di farlo, ma c’è sicuramente un sacco di roba in archivio.
Nella tua descrizione track by track dell’album parli abbastanza di ogni pezzo, mentre ho notato che per “Unlike Anything“ non hai scritto nulla, come mai?
A essere onesti, trovo davvero difficile scrivere parole sulle canzoni che ho scritto. E ho dovuto farlo spesso, ovviamente. E ogni volta che si pubblica un singolo, bisogna scriverlo. Mi ci sono un po’ abituata, ma lo trovo davvero difficile. Quando sono arrivata a quella canzone, mi sono detto: “Ops, non so cosa dire”.
Ma la canzone parla di un sentimento simile a quello che abbiamo descritto prima, poi parla di qualcuno a cui tengo che non sta bene, della solitudine e della paura. Inizialmente non eravamo sicure che fosse una canzone delle Our Girl in realtà, pensavamo che avesse un suono davvero strano. L’abbiamo lasciata lì per un po’ e poi abbiamo deciso che potevamo farla suonare come nostra. Quando l’ho scritta la prima volta, però, era solamente un insieme di sound strano e voce, di cui non sapevamo assolutamente cosa farci. Devo dire che è stato davvero divertente lavorarci. Sì, forse dovrei scrivere qualcosa a riguardo (ride). All’inizio il track by track era un esercizio per farmi parlare delle canzoni, ma è difficile farlo, per esprimere i miei pensieri scrivo direttamente canzoni. Voglio essere in grado di parlarne, ma trovo difficile scrivere qualcosa che le spieghi bene.
Beh, c’è un motivo per cui sei un artista e non una critica musicale, direi!
Vero! Ma se voglio fare interviste, devo sapere come parlare. (ride)
Tornando all’album, non ho potuto fare a meno di notare come le canzoni siano molto intime, parlano di relazioni, dell’essere queer, di problemi di salute e non solo… Come ti senti nel mettere in arte questa tua dimensione vulnerabile?
Scrivere una canzone mi viene molto naturale. Se non lo facessi, farei davvero fatica. Mentalmente, intendo. Poi, ovviamente, non sto dicendo che sia facile scrivere un pezzo: è difficile scrivere una canzone di cui io riesca a sentirmi davvero orgogliosa, che abbia una buona struttura e il giusto feeling. Quello che voglio fare ogni volta è riuscire a far uscire il sentimento iniziale in una canzone, farlo percepire da subito. Quindi direi che è una bella valvola di sfogo. Tra l’altro, non è stato fino a quando non ho pubblicato la prima canzone “Relief” che ho realizzato, “Cavolo. La gente può ascoltare questa canzone e costruirci le proprie interpretazioni“. Ero troppo concentrata sulla registrazione, sul mixaggio, sull’artwork per realizzarlo prima, insomma. Pensandoci adesso, però, direi che questo è ciò che amo della musica. È davvero là fuori. Le persone possono ascoltarti. È una cosa strana mettere i propri sentimenti in qualcosa che gli altri possono ascoltare, ma anche catartico.
“It’s not your fault they don’t know what love is” (da “Relief”). E in fondo, chi sa cos’è l’amore? Se fosse una canzone per te, quale sarebbe?
Me ne vengono in mente diverse, ma sono tutte tristi. Mi viene in mente Sharon Van Etten, c’è così tanto amore e sentimento genuino nelle sue canzoni. Faccio fatica a sceglierne una in particolare, ma tutta la sua discografia è così: è vera, è lei per davvero. È così chiaro che ha provato questo sentimento e che ha bisogno di scrivere canzoni per sfogarlo. Sono sicura che lo fanno in molti, ma Sharon Van Etten è su un altro livello.
Parlando di canzoni tristi, invece, in “It Will Be Fine” canti: “I know there’s sadness in this song but it feels like home to me”, quindi volevo chiederti: un album che ti fa sentire così?
I Big Thief, in generale. Penso solo che siano la band migliore del mondo. Amo Adrianne Lenker e la sua voce, è proprio…
È come un pugno al cuore, ma delicato.
Sì… Ma amorevole. Fa male, ma allo stesso tempo è confortante. Ecco perché mi piace. Quasi tutte le canzoni iniziano con una lotta o con una tristezza e finiscono con una sorta di speranza. Ed è per questo che ho creato “The Good Kind”, perché volevo avere una sensazione di speranza in tutto, cercare il bello anche quando le cose sono difficili.
Ascoltando il disco le prime volte ho pensato che, rispetto al primo album, aveste potenziato un lato più “morbido”, meno carico, come in “Josephine” o “Sub Rosa”. Invece più lo ascolto più ritrovo la stessa tensione emotiva di quel disco, ma cambiata. Forse nell’esordio c’erano più chitarre ruvide, più momenti di quiete che poi venivano lacerati da intensità chitarristica, come se aveste molto insistito su una modalità “acceso/spento”, mentre ora mi sembra che tutto sia più lineare, che ci sia una tensione costante, continua, che percorre tutti i brani e li unisce. Che ne dici?
Mi sembra che in molte canzoni del primo album mi sentissi piuttosto caotica, e penso che risulti abbastanza chiaro dall’ascolto, ho saltato un po’ da una parte all’altra con le narrazioni. Con le canzoni di questo album invece ogni brano parla davvero di ciò di cui parla, in modo piuttosto completo. Le canzoni del primo album sono state, tra l’altro, le prime canzoni che ho scritto in assoluto, da allora ne ho scritte davvero tante – e quelle che ci sono piaciute sono presenti in questo album. Direi che forse sto crescendo un po’, sapendo ormai come mi sento e riuscendo anche a condividere i miei sentimenti. Nel primo album avevo un sacco di pensieri e stavo ancora cercando di capire come esprimerli e soprattutto viverli, non mi sentivo troppo a mio agio nel condividerli in realtà. Adesso invece sono molto più tranquilla nel farlo.
Davvero bello l’arrangiamento d’archi di “It’ll be fine”, è così malinconico. Di chi è stata l’idea?
C’era un violinista che veniva a suonare il violino per “The Good Kind”, perché avevo scritto un arrangiamento d’archi per quel brano. Poi, quando era con noi, abbiamo pensato che forse potevamo sperimentare un po’. L’arrangiamento di “It’ll be fine” le è venuto in mente lì sul momento, ha capito subito la sensazione che volevamo trasmettere, e l’ha fatto alla perfezione. C’è anche il rumore della catena di una bicicletta, tra l’altro! L’ho registrato mentre scrivevo la canzone quando ho fatto la demo, anni fa, e poi abbiamo mantenuto il suono. Non possiamo riprodurlo dal vivo, purtroppo a meno che non ci sia una bici sul palco… O potrebbe essere un’idea, forse! (Ride)
Mi piace molto la scelta di chiudere con i toni soffusi di “Sister” e “Absences”. Stavo ascoltando il disco senza guardare la successione delle tracce, all’inizio pensavo che fosse una canzone unica con “Absences” che praticamente già iniziava con la lunga coda finale di “Sister” che va in calando ma poi riprende. Mi sembra che la loro vicinanza sia perfetta…
Abbiamo pensato molto all’ordine dei brani, non ne eravamo troppo sicure. Volevamo finire con “Sister” perché ha una sorta di fade out finale; poi abbiamo pensato che sarebbe stato bello concludere con una canzone un po’ diversa dal resto dell’album, ma sono contenta si percepisca questo effetto con “Absences”. Alla fine di “Sister” c’è questo effetto sfumato che abbiamo ottenuto mettendo il microfono vicino al pianoforte, per riprendere l’atmosfera generale della stanza, quindi il suono è un po’ strano. E poi c’è una specie di suono ambientale all’inizio di “Absences”, quindi il tuo ragionamento ha perfettamente senso.
In un’intervista hai raccontato che “Sister” cattura al meglio la sensazione di trovarsi insieme nello studio. Allora, qual è la canzone che secondo te descrive meglio la sensazione di stare insieme, ma sul palco dal vivo?
Oh. “What You Told me!”
Avrei detto Something Exciting! Sembra proprio uscita da un live…
Beh sì, ma non l’abbiamo ancora suonata dal vivo! Ma penso che la suoneremo tra un paio di settimane, sarà divertente. “What You Told Me” però ha comunque un’energia intensa e molte chitarre, e suonarla è un vero e proprio sfogo per noi come band.